economia

01. Industria e distribuzione, uniti per la crescita

Come far ripartire i consumi? Quali istanze comuni e condivise da industria e distribuzione portare all’attenzione delle istituzioni? Come affrontare la discontinuità nei comportamenti d’acquisto e di consumo? Come far sì che gli italiani continuino ad aver fiducia nelle grandi marche? Quali i nuovi paradigmi del consumo nell’era digitale? E quale l’importanza della sostenibilità agli occhi degli italiani? Sono i temi di cui si è discusso al 5° Consumer & Retail Summit, intitolato «Nuovi valori nella relazione tra industria, retail e consumatori», che l’11 ottobre scorso ha richiamato a Milano, presso la sede del Gruppo 24 Ore, una folta schiera di rappresentanti del mondo dei beni di largo consumo, della ricerca e dei media.

Il primo relatore: Lamberto Biscarini, partner e managing director di The Boston Consulting Group (BCG), ha subito affrontato la questione più sentita oggi nel mondo dei beni di largo consumo: come far ripartire la domanda interna. «Che i consumi non fossero vivaci già prima dello scoppio della crisi nel 2009 e che si mantengano deboli, dopo la contrazione fatta registrare fra il 2008-2009», ha premesso Biscarini, «dipende da quattro fattori: la congiuntura macroeconomia negativa che genera incertezza sul futuro nel 25% degli italiani; l’incidenza delle spese obbligate, cresciuta nell’ultimo decennio tanto da diminuire la capacità di spesa addirittura nell’alimentare (–4,2%); il progressivo invecchiamento della popolazione, tanto che di qui al 2020 l’età media degli italiani salirà di 5 anni, portandosi a 47 anni; e il basso livello d’occupazione femminile: soltanto il 46% delle italiane lavora, contro il 60-66% delle cittadine francesi, tedesche, inglesi e statunitensi».

Le tre proposte di Indicod-Ecr per crescere

Biscarini ha dunque sottoposto alla platea tre proposte, concepite da BCG insieme a Indicod-Ecr, intese a rilanciare i consumi della filiera delle FMCG da presentare alle istituzioni.

La prima è di sostenere i consumi attraverso un sussidio mensile da destinare alle famiglie a basso reddito. «Si potrebbe ipotizzare un assegno mensile di 100 euro per le famiglie con un figlio e di altri 60 euro per il secondo figlio», ha detto Biscarini, «da spendere per gli acquisti di prodotti grocery. È una misura inedita da noi, ma che negli Stati Uniti è realtà fin dai tempi della guerra nel Vietnam. Quest’anno negli Usa, per esempio, ha consentito un 7,9% di consumi grocery in più. Se applicata in Italia, andrebbe a beneficiare fino a 4 milioni di famiglie e creerebbe anche i presupposti per la ripresa demografica nel no-stro paese».

La seconda proposta è favorire l’occupazione femminile così da far aumentare il reddito familiare disponibile e la propensione ad avere figli. A patto, ovviamente, di creare i presupposti perché entrambe le cose siano sostenibili, introducendo una maggiore flessibilità degli orari di lavoro, agevolazioni fiscali per le madri lavoratrici e servizi adeguati alla famigia. «Le italiane non fanno figli non perché lavorano troppo», ha rammentato Biscarini. «Non ne fanno perché ritengono di non poterselo permettere economicamente e socialmente parlando. E va sottolineato che ove è cresciuta l’occupazione femminile si è generata nuova ricchezza, senza sottrarre posti di lavoro agli uomini. L’impiego femminile ha infatti un effetto moltiplicatore: determina nuovo potenziale di spesa e di consumi, in particolare di prodotti/servizi a maggior valore aggiunto, e nuovi posti di lavoro. La madre lavoratrice ha infatti bisogno d’asili, collaboratrici domestiche, baby sitter, ecc.».

La terza proposta avanzata da BCG e Indicod-Ecr è quella di modernizzare il paese mediante liberalizzazioni settoriali, in grado di dirottare risorse oggi destinate alle spese obbligate verso i consumi grocery, e liberalizzazioni in ambito distributivo per aumentare la possibilità di scelta del consumatore e la concorrenza.

Ovviamente si tratta di misure che hanno un costo. Il sostegno ai consumi delle famiglie si stima richiederebbe un esborso annuo allo Stato per 2-4,5 miliardi di euro, ma sarebbe compensato da un incremento dei consumi grocery di pari importo e avrebbe una ricaduta positiva sul PIL di 4-8 miliardi di euro. Il sostegno all’occupazione femminile rappresenterebbe per lo Stato un costo di 5-6 miliardi di euro annuo, ma genererebbe nel lungo periodo (perché gli effetti demografici sono più lenti) consumi addizionali per 12-22 miliardi di euro (dei quali 2-4 solo nel comparto grocery). E l’impatto benefico sul PIL potrebbe essere nell’ordine dei 35-80 miliardi di euro, sempre nel lungo periodo. Le liberalizzazioni nei settori della distribuzione food e non food, dei carburanti, dei farmaci e della vendita dei servizi finanziari potrebbero infine restituire agli italiani potere d’acquisto per circa 22,8 miliardi di euro, equivalenti all’1,4% del PIL e al 2,5% dei consumi.

«Mi rendo conto che quello che proponiamo è un programma ambizioso», ha concluso Biscarini. «Che la questione è dove reperire le risorse per attuarlo, in quanto, come quasi tutte le iniziative di sostegno proposte nell’ultimo biennio nel mondo, impattano sul debito non ripagandosi in 12 mesi. Il fatto è, però, che questa filiera ha bisogno d’identificare iniziative per rilanciare i consumi e proposte concrete che possano essere utilizzate nel confronto con le istituzioni. È necessario infatti allocare risorse a questo comparto per consentire non solo una soluzione tattica, ma un rilancio di lungo periodo dei consumi, altrimenti ci dovremo conformare a un tenore di vita molto diverso da quello cui siamo abituati».

Largo consumo: è tempo di essere più incisivi

Anche a prescindere da interventi seri della politica, cosa può fare la filiera dei beni di largo consumo? Lo ha chiesto Mattia Losi, direttore editoriale Business Media del Gruppo 24 Ore, ai tre interlocutori della prima tavola rotonda della giornata: Luigi Bordoni, presidente di Centromarca, Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione, e Valerio Di Natale, presidente di Indicod-Ecr.

«Se il sistema dei beni di largo consumo vuole sperare d’avere una possibilità di minimo ascolto», ha risposto Bordoni, «deve innanzitutto innovare profondamente il suo modo di fare lobby, di rapportarsi con il governo e con le forze politiche. Deve fare interventi di sistema. Con la distribuzione abbiamo iniziato a fare lobbying congiunto già da alcuni mesi e se non siamo riusciti a evitare che il Governo aumentasse di un punto l’aliquota Iva del 20%, ma siamo comunque riusciti a scongiurare che venissero abolite le aliquote Iva agevolate del 4 e 10%. Dovendoci confrontare con un interlocutore nel caos, sono inoltre convinto che dobbiamo far ricorso alle risorse interne alla filiera».

Preoccupazione per la delicatissima situazione italiana è stata espressa anche da Cobolli Gigli, che ha dichiarato di condividere appieno sia la tesi dell’editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia quando scrive che: «… il problema vero, profondo, strutturale dell’Italia sta altrove. Sta nell’esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l’immobilità...». Sia l’insoddisfazione di Antonio Catricalà, presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per la condotta del Governo in tema di concorrenza, visto che con la manovra dello scorso agosto ha depotenziato la liberalizzazione degli orari dei negozi, limitandone l’applicazione ai soli comuni a vocazione turistica. «Un’esito questo», ha detto Cobolli Gigli, «che è da ascrivere in parte a un Governo indeciso su tutto, ma in parte anche alle divisioni interne a Confcommercio».

«Dobbiamo aumentare la nostra capacità di proposta», gli ha fatto eco Di Natale. «E se il Governo non ci darà ascolto, occorrerà mandarlo a casa e individuare nuovi interlocutori disposti a interloquire con noi e in grado di metter mano a quanto è necessario fare per il paese». Il presidente di Indicod-Ecr ha sollecitato ancora una volta Idm e Gdo a collaborare per ridurre le sacche d’inefficienza, in primis nell’ambito della logistica. «Solo così», ha detto Di Natale, «libereremo risorse che ci consentiranno d’essere più competitivi, di rispondere meglio alla crescente domanda di valore e di valori del consumatore e di fare innovazione».

La priorità delle priorità per il mondo del largo consumo, hanno concordato i presidenti delle tre associazioni, sono comunque le liberalizzazioni. «I mercati non liberalizzati», ha ribadito Bordoni, «sottraggono risorse. Cosa che non ci possiamo permettere visto che negli ultimi 3 anni il reddito pro capite in Italia è diminuito del 7% e la ricchezza pro capite è scesa del 3%, lasciando sul terreno 3 mila euro a persona». «Dobbiamo portare avanti con più rabbia e coesione la nostra battaglia per le liberalizzazioni», ha aggiunto Cobolli Gigli. «Cerchiamo d’aprire un dialogo con le Regioni per avviare sperimentazioni che ci consentano di dimostrare che la deregolamentazione degli orari e le aperture domenicali sostengono i consumi. E sforziamoci d’interessare a noi i media. Non ci mancano certo gli argomenti se pensiamo che dal 2004 al 2010 i prezzi nella Gdo sono aumentati del 5,6% mentre l’inflazione s’è attestata su un +13,6% e le tariffe dei servizi sono cresciute del 26,3%». «Con passione e senso di responsabilità», ha chiuso il cerchio Di Natale, «dobbiamo fare sistema e portare avanti insieme la battaglia delle liberalizzazioni, perché vanno a beneficio anche dell’industria, non sono utili soltanto alla distribuzione».

Strategie per il valore

Ma com’è opportuno che si muovano le imprese per intercettare meglio la clientela e per far sì che abbia ancora fiducia nei suoi brand? Roberto Adami, senior partner e retail & consumer leader di Price WaterhouseCoopers e Sandro Castaldo, partner di Focus Management, hanno presentato le loro tesi al riguardo.

Adami ha constatato che, se in Italia i consumi sono rimasti sostanzialmente stabili nell’ultimo triennio, è grazie al fatto che la popolazione ha attinto ai propri risparmi. In questa situazione, nel triennio 2011-2013, non è prevedibile che la domanda cresca più dello 0,4% annuo. Una crescita, fra l’altro, che non riguarderà il largo consumo, bensì soltanto l’abitazione, spesa difficilmente comprimibile, e la sanità, in ragione del progressivo invecchiamento della popolazione e della maggior attenzione alla cura di sé. Adami ha inoltre evidenziato come comportamenti d’acquisto improntati a una maggiore razionalità e sobrietà sono destinati a consolidarsi, mentre aumenterà ancora il ricorso a internet sia come veicolo d’informazione che come luogo d’acquisto.

«Abbiamo analizzato i comportamenti d’alcuni operatori di quattro settori - ha spiegato Adami - per comprendere come le imprese si stanno muovendo per aver successo nel complesso scenario attuale». In un mercato maturo e competitivo come quello delle acque minerali e delle bevande analcoliche, secondo l'analisi, la scelta vincente è adottare strategie di sviluppo mirate al raggiungimento d’importanti economie di scala, alla maggiore efficienza e all’innovazione di prodotto per soddisfare i bisogni emergenti dei consumatori. Ancora l’innovazione di prodotto, abbinata questa volta a investimenti in comunicazione, dovrebbe improntare l’azione delle imprese del settore dei grandi elettrodomestici, perché la clientela cerca il value for money, ma è disposta a spendere di più per prodotti di qualità e più efficienti energeticamente. Le imprese della grande distribuzione sia alimentare che non food dovrebbero a loro volta puntare sullo sviluppo della rete distributiva, sull’innovazione e razionalizzazione dei format e sull’ottimizzazione della supply chain per offrire al cliente un prodotto e un servizio di qualità a prezzi competitivi. «La focalizzazione sul core business, la rivisitazione del portafoglio prodotti, l’innovazione, la flessibilità operativa e l’apertura ai mercati internazionali», ha concluso Adami, «rappresentano insomma i principali pilastri su cui impostare strategie orientate alla creazione del valore».

E a proposito di valore e di valori, Castaldo ha presentato alla platea i risultanti di un’indagine quantitativa e qualitativa condotta da Focus Management, sull’impatto che crisi, scandali, promozioni, pubblicità e investimenti sui social network hanno sulla fiducia degli italiani nei confronti dei brand.

Che la crisi abbia indotto gli italiani a contenere gli esborsi, orientando gli acquisti più spesso su prodotti private label o in promozione, e che gli scandali che coinvolgono le aziende si traducano spesso in un non riacquisto (i grandi brand sembrano comunque uscirne un po’ meglio delle marche meno note) non stupisce. Non così scontate sono altre evidenze emerse dalla ricerca. Per esempio, il fatto che le promozioni in taglio prezzo, pur attese e ricercate dagli italiani, non creano maggiore fiducia verso i brand che le attuano. O il fatto che il maggior acquisto di PL non è indice di minor fiducia nel brand industriale. Oppure che campagne pubblicitarie martellanti ed eccessive nell’elogiare un prodotto, a maggior ragione se noto, infastidiscono il consumatore e lo allontanano dal brand. O ancora che i social network non sembrano per il momento in grado d’influenzare le scelte d’acquisto degli italiani, almeno nel grocery.

Tra rivendicazioni e innovazione

A partire dagli spunti offerti da Adami e Castaldo s’è sviluppata la seconda tavola rotonda della giornata, cui hanno partecipato Giovanni Bandi, amministratore delegato di NCR Italia, Pierluigi Bernasconi, amministratore delegato di Mediamarket, Domenico Di Carluccio, customer management director di Coca-Cola HBC Italia, Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes, Gino Lugli, amministratore delegato di Ferrero Italia, e Vincenzo Tassinari, presidente del consiglio di gestione di Coop Italia, moderati da Cristina Lazzati, vice direttore area retail del Gruppo 24 Ore.

Provocatorio e schietto l’intervento di Gasbarrino, che ha innanzitutto fatto autocritica a nome della Gdo. «Il nostro errore più grande», ha detto l’ad di Unes, «è il ritardo con cui ci siamo accorti della crisi e del cambiamento dei comportamenti di consumo della clientela e con cui stiamo prendendo provvedimenti al riguardo. È dal 2004 che il mercato è cambiato e che le cose non vanno bene nel nostro settore. La clientela oggi ha meno denaro a disposizione e idee più chiare: decide lei cosa, dove e quando comprare e si lascia influenzare meno da volantini, carte fedeltà e pubblicità. Ne consegue che dobbiamo cambiare il nostro approccio». Unes lo ha fatto, per esempio, nella private label e con buoni risultati stando a Gasbarrino. Diversamente dagli altri player della Gdo italiana non ne ha ampliato molto l’offerta, né ha investito oltremodo in un packaging system trasversale a tutte le categorie presidiate e non la sostiene neppure con promozioni, ma attua una politica di edlp. «Il segreto del successo della nostra private label», ha detto Gasbarrino, «che ha una quota ben più elevata di quella media in Italia, si basa sul fatto che firmiamo prodotti buoni, ben presentati e che costano poco».

«Ben venga», ha affermato Tassinari, «l’anelito generalizzato fra le catene della Gdo d’offrire convenienza senza abbassare la guardia sui valori che stanno a cuore al consumatore, qualità in primis. Starà al consumatore valutare la credibilità dell’impegno di ciascun retailer su questo fronte e a noi distributori comunicarlo con credibilità. Altrettanto prioritario per tutti noi ritengo sarà lavorare singolarmente e insieme all’industria per rendere più efficiente la nostra filiera e per far sentire e pesare di più la nostra voce. Da tempo lamento il fatto che la Gdo sia trattata da Cenerentola dalla politica. A maggior ragione oggi dobbiamo far sentire la nostra contrarietà rispetto a decisioni, come quella dell’aumento dell’Iva, che vanno contro gli interessi del paese e che mettono a rischio la crescita, deprimendo invece che favorendo i consumi».

Più focalizzati sulle strategie per continuare a godere della fiducia dei consumatori gli interventi di Lugli e Di Carluccio. Il primo ha sottolineato l’ottimismo del suo gruppo di poter performare ancor meglio. «In quanto gruppo di grandi dimensioni che opera in mercati piccoli», ha detto Lugli, «abbiamo relativamente a quei mercati un vantaggio competitivo. Potendo poi contare su un’elevata fedeltà alla marca in settori in cui la frequenza d’acquisto è limitata, riteniamo d’avere opportunità di crescita importanti a patto d’investire in pubblicità e nel rapporto con la Gdo, per far sì che i nostri prodotti arrivino meglio e più prontamente al consumatore».

«Il fatto che anche in momenti difficili come gli attuali la brand love degli italiani verso Coca-Cola sia la più alta d’Europa», ha affermato Di Carluccio, «dipende dal nostro lavoro maniacale verso la costruzione di un rapporto di fiducia con la clientela. Lavoro che passa oggi anche da una verifica costante della percezione che ha il cosumatore della qualità e del valore emozionale dei nostri prodotti e dal conseguente adeguamento dei nostri prezzi. La fiducia nei nostri brand si fonda anche sulla coerenza nel tempo del messaggio veicolato tramite tutti i punti di contatto che abbiamo con il consumatore finale. Ed essendo i giovani una porzione importante della nostra clientela, siamo particolarmente attenti ai media digitali cui destiniamo parte del nostro consistente budget di comunicazione. Oltre a far ricorso a video-adertising tramite YouTube e altri siti, creiamo momenti d’interattività con gli utenti del web e facciamo ricorso ai social media sui quali Coca-Cola, per esempio, ha raggiunto i 31 milioni di fan».

Proprio riguardo ai media digitali, Bernasconi ha espresso la sua convinzione che le imprese debbano tendere a una totale permeabilità e multidirezionalità del rapporto con il pubblico. «Noi che vendiamo innovazione», ha detto l’ad di Mediamarket, «non possiamo non stare al passo. Sono convinto che dobbiamo aprirci al dialogo via internet con il pubblico, mettendoci in gioco senza paura delle reazioni e delle risposte. Questo ci stimolerà a impegnarci nei confronti della clientela e darà valore ai nostri negozi. Soprattutto in un filiera frammentata e polarizzata come quella dell’elettronica di consumo e degli elettrodomestici, di cui noi distributori abbiamo un controllo molto relativo, un consumatore informato potrà giocare un ruolo importante».


Bernasconi ha anche lanciato un appello alle istituzioni perché la legislazione italiana si allinei a quella europea in fatto di durata della garanzia sui prodotti e alle amministrazioni locali perché migliorino la distribuzione sul territorio dei centri di raccolta delle apparecchiature elettriche da smaltire per ridurre l’eccessiva onerosità per la distribuzione d’ottemperare alla normativa RAEE.


«Occorre prendere atto», ha sottolineato invece Bandi, «che è finita l’era del B2C e che siamo entrati nell’era del C2B. Che occorre dare al consumatore, soprattutto a quello giovane e più difficile da acquisire, gli strumenti per essere parte attiva. Oggi, d’altronde, il pubblico chiede di poter scegliere più liberamente e senza perdere tempo e d’instaurare un rapporto più personalizzato con i brand e con le insegne. Proprio perché ormai confrontare i prodotti e poterli ordinare, prenotare e acquistare ovunque si trovi e con qualsiasi mezzo tecnologico è un’esigenza vastamente sentita, noi di NCR abbiamo spostato i nostri investimenti dall’operatore al consumatore».


Sollecitati da Lazzati a individuare un tema comune per far ripartire i consumi, gli ospiti della seconda tavola rotonda hanno proposto di focalizzarsi sulla sostenibilità (Gasbarrino), sulla lotta all’inflazione (Tassinari), sull’essere più efficienti e sul miglioramento dei rapporti Idm-Gdo (Lugli), su un patto per l’innovazione, perché oggi innovare nel mondo grocery è poco remunerativo (Di Carluccio) e sul fare concretamente innovazione per colmare il gap che ci separa dagli altri paesi (Bandi).

Servire il cliente nell'era digitale

Tirando le conclusioni sul contributo che le nuove tecnologie possono dare alla fidelizzazione del consumatore in uno scenario di domanda stabile, Alessandro Zanotti, lead of retail di Accenture per l’Italia, la Grecia e i mercati emergenti, ha sollecitato gli operatori presenti in platea a porsi la domanda se sono pronti a servire il cliente dell’era digitale. Ciò in considerazione di dati di fatto, come il sorpasso avvenuto nel 2010 delle inserzioni pubblicitarie sul web su quelle sulla carta stampata; l’influenza delle informazioni reperite in internet sulle decisioni d’acquisto, dichiarata dal 92% degli americani; la dislocazione degli utenti internet: il 42% risiede in Asia; l’enorme numero di video guardati su YouTube: oltre 2 miliardi al giorno, e degli utenti di Facebook, che insieme potrebbero costituire la popolazione del terzo maggior paese al mondo. E ancora il fatto che il 25% delle risposte riguardanti i top 20 brand mondiali si basi su informazioni fornite dai loro utilizzatori; che nel 2014 ci saranno 1 miliardo di nuovi utenti internet e 800 mila nuovi utenti di supporti mobile; che nel 2015 la metà delle transazioni finanziarie e la maggioranza degli acquisti verrà effettuata tramite smartphone e tablet; e che, sempre nel 2015, il numero delle persone che si collegherà a internet con questi dispositibi supererà quello complessivo degli utenti del web.


Zanotti ha quindi illustrato i quattro paradigmi del cambiamento - Trust & Sharing, Crucial & Sustainable, Quick & Deep e Unique & Universal - e come il proliferare dei canali di comunicazione con il consumatore rappresenti per le imprese un’opportunità per allinearsi ai nuovi paradigmi e creare un legame duraturo fra il consumatore e i propri brand. «La sfida», ha concluso Zanotti, «è sviluppare competenze e strumenti che consentano alle imprese d’interpretare le nuove esigenze del consumatore e d’interagire con lui». Alcuni lo hanno fatto con successo.

A cura di Luisa Contri


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