distribuzione tecnologia

Retail media e il giacimento di dati ancora non sfruttato

l'opinione di

Gianluca Diegoli

Retail media is marketing to consumers at or near their point of purchase, or point of choice between competing brands or products. Common techniques include in-store advertising, online advertising, sampling, loyalty cards and coupons or vouchers.[1] (Wikipedia)

Il settore del grocery digitale nel 2023 ha smesso gli abiti dell’entusiasmo esuberante – e per molti versi irrazionale, almeno per l’Italia – per le aspettative di una continua e rapida crescita dell’e-commerce post-Covid nei prodotti freschi e prodotti confezionati (CPG - Consumer Packaged Goods). Questo nuovo realismo ha colpito sia il direct-to-consumer di brand – i risultati sono spesso stati più di testimonianza che di impatto sui conti aziendali – che gli e-commerce della grande distribuzione, complessivamente in una fase incerta, tra aperture, ripensamenti e consolidamento. In questi giorni si può infatti tracciare un quadro abbastanza compiuto dell’anno passato: da citare le chiusure (Easycoop che lascia Roma dopo sei anni), le nuove aperture (Tosano che consegna nel nord-est, Eurospin per adesso solo a Milano), e i bilanci non proprio floridissimi per i pure player come Cortilia e infine gli abbandoni dell’Italia dei super-fast delivery come Getir e Gorillas.

Insomma, il retail digitale è in piena evoluzione e va – in modo interessante, a dire il vero – in ordine sparso. Quello che non è cambiato, invece, è l’interesse per il mondo del dato. Obiettivi di ottimizzazione dei budget pubblicitari e focus sulle vendite vedono al centro dell’innovazione, paradossalmente, due touchpoint che sembravano “passé”, il punto vendita (anche nelle sue propaggini online, come siti, app e volantini) e la TV (di cui ci occuperemo in un secondo articolo). Il primo touchpoint si trasforma da punto “vendita” a punto “advertising”: diventa appunto retail media.

Il punto vendita oggi non è più, nelle visioni del futuro del settore “ipertecnologizzato” – la stessa Amazon ha parecchio ridimensionato il progetto dello store automatico, e ha fatto notizia, proprio e più in quanto abbastanza controcorrente, l’apertura di un primo “Conad-Go”, per fare un facile gioco di parole, a Verona. Tuttavia, come spesso accade, il dato e il digitale agiscono al loro meglio quando non si notano in superficie. Infatti, come da anni sostengo, il retail sta seduto su di un giacimento di dati ancora non pienamente sfruttato: è composto dai dati degli acquisti dei propri clienti, che definiscono interessi, abitudini e preferenze ormai molto più precisamente degli sfuggenti e sempre meno disponibili cookie di terza parte (da cui i network pubblicitari desumono interessi e preferenze, cioè dalla nostra fruizione dei contenuti online). E questi dati, con gli opportuni offuscamenti per ragioni di privacy individuale, possono essere utili per essere “rivenduti” all’industria di marca, alla ricerca di una targetizzazione più precisa per affinare il ritorno del proprio investimento pubblicitario. E questa targetizzazione si può associare – e qui ritorna il ruolo dello store, ma in una veste diversa, in forma di media – a superfici fisiche (display, device “salvatempo”, ecc.) e digitali (app del retailer, il volantino, il sito web), in modo da essere personalizzate a seconda dell’utilizzatore, per ospitare advertising di quei brand a cui interessa arrivare a specifici consumatori (e chi non vorrebbe usare la propria pubblicità sui consumatori più fertili?).

In pratica, la nostra azienda immaginaria “Sapore Caseario” potrebbe sfruttare i dati dei clienti del retailer per supportare nuovi lanci, promozioni, concorsistica ecc., senza dover più “spargere a pioggia” il proprio budget su tutti i clienti del punto vendita, ma limitando l'audience solamente verso coloro che in passato hanno dimostrato preferenze e abitudini di acquisto per i formaggi, magari addirittura di un certo tipo, solo sui freschi e non su quelli stagionati. E questo accedendo a spazi online (volantino digitale, sito, la lista della spesa, coupon, ecc.) e fisici che si prestano a essere personalizzati in modo pressoché one-to-one, ma che potrebbe includere e rendere accessibili anche spazi più generalisti come radio in-store e display, magari però diversi da punto vendita a punto vendita.

Potrebbe diventare quella strategia win-win tra retail e brand di cui si parla da tempo, ma che nei fatti non si è mai realizzata, nel nome della condivisione (a pagamento) del dato. Una nuova fonte di cashflow che i retailer non intendono farsi sfuggire, visto anche il successo di Amazon nel settore dell’advertising. Non è un caso che tra gli early adopter ci sia Walmart, e che in Europa l’esempio sia stato seguito da Carrefour e Tesco.

La strada è lunga ma promettente: ci sono da sciogliere nodi relativi al ritardo in termini di reportistica, calcolo del risultato, processo di acquisto su questi nuovi network pubblicitari creati dai retailer, che al momento non sono sofisticati come quelli di Google, Meta ma nemmeno di Amazon. Spesso l’integrazione richiede un intervento della funzione tecnologica sia del retailer e del brand, e non è sicuramente al momento “plug and play” come creare una campagna su Instagram. La frammentazione dell'inventory pubblicitaria in diversi network di retailer è oggi un freno (immaginate la nostra azienda immaginaria Sapore Caseario che deve acquistare uno a uno spazi retail in decine di catene, spesso composte da soluzioni organizzative eterogenee, come il franchising). Questo comporta che oggi in Italia le soluzioni si limitino alla più automatizzata interfaccia online del retailer: cioè Sapore Caseario potrebbe prendere spazi targettizzati ad hoc sulla app del retailer, ma avrebbe molte più difficoltà a completare la campagna in-store. Il momento in cui da una dashboard a disposizione dell'inserzionista si potranno “comprare” spazi in corsie di cassa, estremità degli scaffali, ripiani del negozio, porte del frigorifero e altrove sembra non ancora prossimo, ma nemmeno lontanissimo.

C’è poi la questione della misurazione. Sapore Caseario deve fidarsi dei dati del retailer, quanto meno in mancanza (o in attesa) di dati di vendita che confermino il ritorno dell’investimento, in mancanza di certificazioni di terzi. Al momento non esistono standard e metriche come quelli del mondo dell’adv digitale per misurare attenzione, visibilità. O meglio: per le property del retail valgono quelli standard (i banner, i video e le loro metriche, per capirci) mentre per le property in-store, KPI e formati sono stati appena standardizzati da IAB, e ancora abbastanza sperimentali.

Probabilmente però gli elefanti nella stanza sono l’attribuzione e l’incrementalità, due concetti che stanno venendo riscoperti in questi anni. Come fa Sapore Caseario a capire che l’acquisto da parte del consumatore della sua nuova caciotta è dovuto all’investimento in retail media, o quantomeno in che misura? Certo, è possibile incrociare dati di vendita e attività pubblicitarie, ma non è così in tempo reale come per l’e-commerce, soprattutto per gli investitori (l’industria di marca). E soprattutto (è l’incrementalità, appunto) come fa a giudicare se quella caciotta si sarebbe venduta comunque? Certo, è possibile fare A/B test su punti vendita non impattati, ma anche in questo caso i risultati non sono immediatamente ottenibili come in caso di journey completamente digitale. È chiaro che l’advertising, più si sposta verso la fine del customer journey, più rischia di non creare nuovi consumatori alla marca, ma di convogliare coloro che avevano già un’ampia probabilità di acquisto, sia pure, a volte, di marche concorrenti. Spetterà come sempre alla TV, in forma di connected-TV, a creare awareness diffusa e memorabilità. Ma questo sarà l’oggetto della prossima puntata di questo spazio. 

Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it


[1] Il retail media è un'attività di marketing rivolta ai consumatori nel punto di acquisto o in prossimità di esso, o nel punto di scelta tra marchi o prodotti concorrenti. Le tecniche più comuni comprendono la pubblicità in negozio, la pubblicità online, il sampling, le carte fedeltà e i coupon o i buoni sconto [traduzione a cura della redazione, ndr]