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Efficienza e collaborazione nella perma-crisi

Al settimo Forum Food&Beverage di The European House-Ambrosetti si celebra l’industria agroalimentare italiana, sulla quale però si stanno concentrando alcune ombre

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Nel 2022, secondo l’analisi di The European House-Ambrosetti, presentata al settimo Forum Food&Beverage a Bormio, l’intera filiera agroalimentare italiana, che nel 2021 ha fatturato 225,8 miliardi di euro, si conferma uno dei comparti più rappresentativi del Made in Italy: sostiene infatti circa 30 macro-settori, contribuendo alla realizzazione del 16,4% del Pil nazionale, con 282 miliardi di euro di valore aggiunto, di cui 64,1 diretti, con il F&B che partecipa per 26,7 miliardi (ma erano 30,2 nel 2021) e l’agricoltura per 37,4 miliardi (erano 34,8 nel 2021).

Fig1_ForumAmbrosetti_23.jpgFigura 1 – La filiera agroalimentare in sintesi*inclusa ristorazione Fonte: elaborazione The European House Ambrosetti su dati Istat e Crea, 2023

Un contributo fondamentale è arrivato dalla crescita delle esportazioni al livello record di 58,8 miliardi di euro nel 2022, un valore che sfonda la barriera dei 60 miliardi di euro se si considera anche il tabacco. Oltre 50 miliardi sono generati dall’industria di trasformazione (con tutti i settori in crescita di due cifre e il vino in prima posizione) e 8,4 miliardi dall’agricoltura. Ma la performance della filiera italiana è ancora inferiore a quella dei principali competitor europei: l’Italia è solo quinta in Europa per valore del proprio export e l’incidenza dell’export agroalimentare sul totale è pari al 9,4%, contro il 13,5% della Francia e il 16,9 della Spagna. C’è quindi un potenziale ancora da esprimere frenato dall’elevata frammentazione della filiera composta per l’85,4% da piccole imprese che contribuiscono soltanto al 14,6% dei ricavi del settore e da fenomeni quali l’Italian sounding.

Italian sounding e bilancia commerciale

Questo fenomeno, vale, secondo lo studio condotto per il secondo anno da Teh Ambrosetti e Ismea, circa 60 miliardi di euro, riguardanti direttamente i consumatori stranieri che realmente desiderano acquistare prodotti made in Italy e sono ingannati da denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia sulle etichette e sulle confezioni, portando il potenziale valore dell’export agroalimentare italiano a circa 120 miliardi di euro.

Lo studio prova poi a ipotizzare tre scenari per riconquistare gli spazi occupati dalle imitazioni dei prodotti tipici italiani. Raddoppiando il tasso di crescita degli investimenti nel settore rispetto a quello attuale ci vorrebbero 27 anni per convertire l’Italian sounding in nuovo fatturato, e quindi export, delle imprese italiane. Raddoppiare, invece, il tasso di crescita degli investimenti, ma anche la loro produttività puntando su innovazione e digitalizzazione, dimezzerebbe quasi i tempi, fino a 15 anni. Nel terzo e migliore scenario al raddoppio del tasso di crescita di investimenti e produttività si aggiunge l’impulso dei fondi del PNRR consentendo di arrivare entro 11 anni all’obiettivo prefissato di “trasformare” i 60 miliardi di vendite sotto le insegne dell’Italian sounding in export agroalimentare effettivo per il nostro paese.

Si capisce bene che si tratta di obiettivi che richiederebbero una serie di scelte strategiche che chi ha governato e governa l’Italia non ha mai avuto il coraggio di fare, nonostante i fiumi di parole e di impegni presi al riguardo.

Nel 2022, poi, la bilancia commerciale della filiera agroalimentare italiana è tornata negativa con un saldo di -2 miliardi di euro, dopo i primi tre anni positivi dal 2019 al 2021. L’esposizione internazionale della filiera agroalimentare è guidata da un deficit agricolo in continuo peggioramento, che ammonta a -13,2 miliardi di euro nel 2022. Infatti, a causa della dipendenza agricola dall’estero, il paese ha “perso” circa 100 miliardi di euro di Pil nel periodo 2010-2022.

Inflazione e consumi interni

Nel mercato interno vi sono due aspetti critici che si intersecano tra di loro:

  • Il cambiamento climatico.
  • L’inflazione.

Il 2022 è stato l’anno con la più alta anomalia termica e pluviometrica accompagnata dalla crescita della frequenza di eventi estremi portando a perdite di raccolti in molte categorie di prodotto, con un danno calcolato da Coldiretti pari a 6 miliardi di euro. E l’alluvione in Emilia Romagna, dove il 42% della superficie agricola regionale è andata sott’acqua, ha aggiunto ulteriori elementi negativi, che avranno ripercussione anche sui prossimi anni.

L’inflazione alimentare a doppia cifra (11,9%) è l’altro elemento di grande preoccupazione in un quadro che vede i consumi alimentari (esclusa la ristorazione) fermi da oltre un decennio e con una flessione del -3,4% nell’ultimo anno.

Fig2_ForumAmbrosetti_23.jpgFigura 2 – Spese per consumi finali in beni alimentari e bevande delle famiglie italiane (mld €, prezzi costanti – valori concatenati 2015), 2010-2022Nota: Esclusa la ristorazione - CAGR: Tasso medio annuo di crescita composto. Fonte: elaborazione The European House Ambrosetti su dati Istat, 2023

Il dato che purtroppo si ripete da qualche anno è la contrazione della capacità di spesa delle famiglie con effetti asimmetrici: per le famiglie nel quintile a più basso reddito il 76% della spesa è incomprimibile, 21 punti percentuali in più delle famiglie del quintile più ricco. Ma l’inflazione percepita di nove consumatori su dieci è decisamente superiore al 10% e le famiglie si orientano verso una maggiore attenzione alle offerte e alla riduzione degli sprechi e si rivolgono di più verso i discount (il 48% di un campione di mille consumatori).

Fig3_ForumAmbrosetti_23.jpgFigura 3 – Distribuzione della spesa delle famiglie italiane per quintili (% sul totale, 2021)Fonte: elaborazione The European House Ambrosetti su dati Istat e Banca d’Italia, 2023

E le imprese? Per sette aziende italiane su dieci (69,2%) del settore Food&Beverage (su un campione di 500 imprese) il problema più grave causato dallo stato di crisi permanente che l’economia globale sta vivendo da oltre 3 anni, è l’inflazione energetica. Al secondo posto ci sono gli effetti della crisi inflattiva delle materie prime (49,9%), e via via gli strascichi della pandemia (23,0%) e, in linea con la crescita dei prezzi sulle materie prime, la difficoltà di approvvigionamento degli input produttivi (22,2%). All’ultimo posto vi è l’impatto dei danni legati alla siccità (13,5% delle imprese) che trova spiegazione nella storica dipendenza da materie prime estere delle aziende italiane. Nonostante questi impatti, un terzo delle imprese ha dichiarato di aver mantenuto il proprio piano strategico in questo periodo di crisi. Ciononostante, una metà degli intervistati afferma di avere aumentato i prezzi al consumo meno dell’inflazione (39,4%) o di non averli aumentati (11,6%).

Sul tavolo i volumi che calano

È evidente che dietro queste risposte ci sono varie realtà, ma il fondo della questione riguarda la possibile frattura nei rapporti tra Industria e Distribuzione con esiti non prevedibili. È un nervo scoperto dalla fine della pandemia, che ora richiede la massima attenzione, disponibilità al dialogo e alla collaborazione.

«Se è vero che nei primi cinque mesi di quest’anno il valore delle vendite è in crescita – afferma Maura Latini, amministratrice delegata di Coop Italia – vi è per contro una perdita solida di almeno 3 punti percentuali dei volumi in tutti i canali del largo consumo. C’è una grande contraddizione tra l’economia che gira e i volumi con tassi di calo mai visti nel dopoguerra. Anche il dato dell’inflazione nel carrello della spesa rischia di non essere più confrontabile per un gran numero di articoli: tra sgrammatura delle confezioni e innovazioni vere o presunte, molti prodotti registrano aumenti reali di prezzo anche del 20-30%. La domanda è come fare a restituire prezzi accessibili alle famiglie e per questo occorre trovare insieme una sintonia nuova acquisendo la stessa consapevolezza di quanto sta accadendo nella realtà senza avere percezioni opposte che non tengono conto dei dati di fatto. E la perdita dei volumi è un dato di fatto che può generare dei rischi in tempi brevi». Un tema che comincia a farsi strada anche negli azionisti delle maggiori aziende, anche perché la riduzione dei volumi può scatenare un effetto domino non difficile da immaginare.

Se per Patrizio Podini, presidente di MD, occorre pragmaticamente trovare i mezzi per aumentare i salari di 25-30 euro detassati per ridare slancio ai consumi delle famiglie, secondo Edoardo Gamboni, direttore commerciale e consigliere d’amministrazione di Végé, dopo aver trovato mediazioni e compromessi per affrontare un difficilissimo 2022, «è necessario un confronto aperto sui costi dell’energia, che da settimane sono rientrati sui livelli pre-crisi, e sui costi logistici». È un invito all’Industria a collaborare, anche selezionando i fornitori sulla base di scelte per migliorare l’efficienza, dai listini digitali a processi negoziali più strutturati, alla condivisione dei dati.

Sulla stessa lunghezza d’onda, Francesco Avanzini, direttore generale operativo di Conad: «Se è vero che viviamo in una condizione di perma-crisi, dobbiamo confrontarci anche con orizzonti di lungo periodo. Non sarà necessariamente con tutta l’Industria ma con chi si condivideranno visioni comuni nel rispetto delle proprie strategie. Con altri dovremo dividere le nostre strade».

Di opportunità da non perdere parla Maniele Tasca, general manager di Selex: «In questa fase così critica assistiamo a un allargamento dei punti di vista della Distribuzione e dell’Industria, pur nelle reciproche preoccupazioni per le proprie aziende. Il banco di prova sono i prossimi mesi che vanno interpretati correttamente alla luce del fatto che ci sono i clienti con le difficoltà che abbiamo visto e che se bisogna fare dei riposizionamenti devono essere strutturali e non tattici. Per questi motivi gli investimenti di breve periodo come stiamo osservando sono un’ulteriore perdita di opportunità rispetto a quanto si è fatto nei mesi scorsi». È un impegno che deve vedere unita la filiera nel togliere inflazione ai consumatori, sostiene Massimiliano Silvestri, presidente di Lidl Italia, anche con il sostegno della politica, perché la distribuzione non ci sta a essere ritenuta l’unica responsabile nel generare inflazione nel carrello.

E Christophe Rabatel, ceo di Carrefour Italia, aggiunge che nel mercato che evolve verso volumi negativi il futuro è collaborare nel modo migliore per tutti: «Se lavoriamo insieme si possono aprire buone opportunità per ridurre l’impatto comune sulla catena del valore e ridurre i costi per avere prezzi più bassi. Lo facciamo già con molti fornitori dell’Industria per i loro marchi e per la marca del distributore. Negare la necessità di un tavolo di lavoro comune è un errore strategico. La sola strada possibile è la strada della collaborazione per portare buoni risultati per tutti. Ma è il momento di scegliere bene i nostri partner».

Quante volte è stato detto che il modello negoziale così com’è appartiene ad altre epoche? Lo ricorda ancora Maura Latini, che richiama alla necessità di attivarsi insieme per contrastare la caduta dei volumi e denuncia l’assenza del governo perché, afferma, «l’efficienza la devono fare le imprese, ma se non ci sono infrastrutture e un paese che fa progredire l’efficienza difficilmente recupereremo risorse da trasferire alle famiglie. Perché se non riusciremo a restituire risorse alle famiglie più deboli, non recupereremo i volumi. Allora serve fare fronte comune affinché anche le istituzioni facciano la loro parte. Non mi voglio accontentare del Pil che cresce quando i volumi dell’agroalimentare italiano calano».

A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab