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Parola di McDonald’s: «Macché globalizzazione, il futuro è la personalizzazione»

Intervista con Roberto Masi, ad di McDonald’s Italia: «Eravamo l’hard discount della ristorazione, ora sta cambiando tutto. I nostri concorrenti? Sono i bar e le tavole calde, non i fast food».

«Nella classifica dei rompiscatole sono al primo posto, senza dubbio». Così Roberto Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia definisce se stesso e il suo rapporto con la casa madre. Un passato a Carrefour, Masi, è in plancia di comando da nove anni - «la durata media di un country manager è di quattro anni, direi che mi difendo bene» -, ma soprattutto è l’uomo che sta provando a ridefinire le regole del colosso globale per eccellenza. Sua l’idea di aprire alle colazioni, servendole all’italiana, col caffè al banco. Così come è sua l’intuizione di puntare su ingredienti e produttori locali, su chef stellati come testimonial. E se l’Italia è diventata il cuore delle sperimentazioni di McDonald’s sul futuro del fast food un caso, evidentemente, non è: «Il nostro modello e il nostro concorrente principale è la tavola calda, non le altre catene di fast food - spiega -. E per batterle dobbiamo puntare sulla qualità, sulla personalizzazione e sull’innovazione tecnologica. Abbattendo tutti i tabù di McDonald’s e rendendo locale la sua strategia globale».

Partiamo da qui, Masi. Perché il modello della multinazionale che serve ovunque lo stesso panino, con gli stessi ingredienti, con lo stesso servizio, nello stesso locale è entrata in crisi?

McDonald’s sbarca in Italia nel 1985. Allora eravamo stati accolti con gioia. Un marchio globale che sbarca in Italia era il segno dei tempi che stavano cambiando, che la modernità che eravamo abituati a vedere nei film americani stava bussando alle nostre porte. Si può dire che eravamo il sogno americano.

E poi?

Poi la gente ha cominciato a cambiare opinione. Aveva paura che distruggessimo le loro tradizioni alimentari, che omologassimo tutte le differenze in uno standard indistinto fatto di hamburger, patatine e bibite zuccherate. In più, montava una critica politica alla globalizzazione, di cui, a torto o ragione, siamo diventati una specie di simbolo.

Come mai?

Perché siamo stati i precursori dell’espansione globale. E perché avevamo i punti vendita. Facebook e Google sono i nuovi colossi globali, ma non c’è una grande F o una grande G in ogni piazza o ai caselli autostradali.

La grande M invece era una specie di simbolo: «anche questi li abbiamo globalizzati…»

Esatto. E a un certo punto è diventato un problema serio. Tanto da spingerci a cambiare radicalmente il nostro approccio.

Come?

Parlo per l’Italia. La nostra strategia si può dividere in tre fasi distinte.

Cominciamo dalla prima.

Cambiare l’arredamento, rendere i locali più larghi e piacevoli. Soprattutto, uno diverso dall’altro.

Che senso aveva? Se la gente rimane di più, c’è meno rotazione di clientela e rischiate di vendere meno pasti…

Infatti a Chicago dicevano che eravamo pazzi. Ma la nostra idea è che se il locale fosse stato più bello e accogliente, sarebbe entrata più gente. Soprattutto, gente diversa rispetto ai classici teenager.

Ha funzionato?

Un po’, ma non era sufficiente, perché avevamo un altro problema.

Quale?

L’idea che la gente aveva di McDonald’s come l’hard discount della ristorazione per eccellenza. Noi eravamo l’entry level della ristorazione, in effetti, un po’ come Ikea lo è per l’arredamento e Zara per l’abbigliamento: costa poco, ti servono subito, mangi e vai. Per raggiungere nuovi clienti, dovevamo lavorare molto sulla qualità reale e percepita dei nostri prodotti.

Eravate considerati quelli del cibo spazzatura…

In realtà il nostro cibo era il massimo degli standard sulla sicurezza alimentare: che io sappia non è mai stato chiuso un ristorante McDonald’s per sofisticazione o scarso igiene. La gente ci percepisce di bassa qualità principalmente perché il prezzo è molto basso. Vagli a spiegare che paghi poco perché abbiamo allocato bene le risorse e facciamo economie di scala.

Cosa avete fatto, per fargli cambiare idea?

L’intuizione è stata puntare sulle filiere locali. Un’altra mezza rivoluzione: per la multinazionale americana prendere la carne in Irlanda o in Argentina o dovunque altrove era uguale. L’importante era trovare quella col miglior rapporto qualità/prezzo. Per il consumatore italiano no. La provenienza locale è importante. Risultato: dieci anni fa, le filiere agricole italiane erano il 10%, oggi sono l’85%.e tutta la carne oggi è italiana. È stata dura, però, perché dieci anni fa Coldiretti e il Ministero nemmeno ci volevano incontrare.

E come avete fatto a invertire la rotta?

Quando abbiamo iniziato a fare cose visibili. Il punto di partenza è stato mettere il Parmigiano-Reggiano nei panini. Ovviamente, anche in questo caso il Consorzio non voleva riceverci, ma siamo stati tenaci e alla fine ci hanno detto sì. Poi abbiamo fatto il panino con Gualtiero Marchesi. È stato a quel punto che siamo riusciti a entrare in contatto con l’allora ministro Luca Zaia. Da questo incontro è nato il McItaly, con l’asiago e la bresaola Igp.

E il ministro è stato accusato di intelligenza col “nemico”…

Sì, ma è stata una polemica che ha avuto vita breve. Ora collaboriamo stabilmente con il ministero. Gli ultimi due ministri ci hanno detto che vorrebbero esportare i sistemi di controllo e tracciabilità che abbiamo noi. Noi in due ore sappiamo dirti tutto sulla carne che mangi. Non c’è azienda italiana che è in grado di farlo.

«Lo dissi ai miei collaboratori sette anni fa: se siamo capaci di vendere l’espresso agli italiani, avremo un 20% di clientela in più, e anche il BigMac gli sembrerà migliore. Perché ti abitui al luogo, lo riconosci come simile a te»

A proposito di aziende: chi sono i vostri fornitori?

Sono giovani agricoltori italiani. L’insalata arriva da Salerno. Le arance sono dalla valle dell’Etna, il pane viene da Modena. Ed è bello che siano giovani. Noi cerchiamo di adattare la globalizzazione alle istanze del locale. Nei nostri 550 ristoranti ogni giorno incrociamo milioni di italiani, centinaia di comunità locali. Gli agricoltori sono orgogliosi di essere nostri fornitori e noi siamo orgogliosi di loro. Gonfiano il petto a dire che sono fornitori di McDonalds. Costruiamo la credibilità del brand. Cheap and fast non basta più come identità. Vogliamo arrivare a mille ristoranti in Italia, e la strada è questa.

Il terzo cambiamento?

Mancava ancora un’ultima cosa: ridare rilevanza alle abitudini degli italiani. E siamo partiti dalla colazione, dal caffè.

Come mai proprio dal caffè?

Rispondo con le parole che dissi ai miei collaboratori sette anni fa: se siamo capaci di vendere l’espresso agli italiani, avremo un 20% di clientela in più, e anche il BigMac gli sembrerà migliore. Perché ti abitui al luogo, lo riconosci come simile a te.

Ce l’avete fatta, no?

Sì, ma ci abbiamo messo sette anni. Il primo tentativo l’abbiamo fatto con le colazioni da McDonald’s. Caffè nel bicchiere di carta e uova strapazzate. All’estero funziona, in Italia no. Gli italiani hanno il numero di bar più alto d’Europa. Indipendenti, peraltro. Li abbiamo imitati, con buona pace della casa madre: «Perché fate il consumo al banco», ci chiedevano. «Perché in Italia due caffè su tre sono consumati al banco», gli rispondevamo. Oggi il caffè è talmente buono che presto lo venderemo nei supermercati. Ovviamente, è local pure quello: della Ottolina, una torrefazione milanese.

Volete assomigliare più a un bar, che a un Burger King…

Sono i bar il nostro principale competitor, non Burger King: colazione col cornetto e brioche, a pranzo il toast o l’insalata, poi l’aperitivo, e poi la cena.

A voi l’aperitivo manca…

No, ma è un sogno nel cassetto. Sarebbe bello, lo spritz da McDonalds. Nel frattempo abbiamo tutto il resto. E siamo riusciti ad allargare la clientela: ceti sociali diversi, età superiore rispetto ai teenager. Nei tre locali del centro di Milano, c’è la caffetteria, c’è il servizio al tavolo, c’è gente che lavora col wifi. Dieci anni fa aprivamo i ristoranti alle 11. Oggi alle 7.

Il cambiamento è finito?

No, non è finito. Prima eravamo fordisti: puoi avere tutti i panini che vuoi purché sia Big Mac. Perché ormai la gente vuole scegliere tutto. La personalizzazione è la chiave d’accesso per il futuro.

Come funzionerà?

Già funziona. Siamo i secondi dopo l’Australia a consentire ai clienti di farsi il proprio panino. Per noi è una rivoluzione epocale. C’è un touch screen: scegli gli ingredienti del tuo panino, paghi e ti portano il menù a tavola. Per noi questa è una doppia rivoluzione: cambiamo il BigMac e abbandoniamo il nostro metodo di servizio al banco - tre minuti dall’ordine a quando porti via il vassoio - che andava avanti da cinquant’anni.

Cosa c’entrano lo schermo e il servizio a tavola con la personalizzazione?

È il progredire di consumi e tecnologie va in quella direzione. Tra dieci anni il consumatore userà lo smartphone e il bancone diventerà una barriera fisica. I nostri touch screen saranno presto sostituiti dagli smartphone. Partire subito con lo smartphone sarebbe stato un salto mortale. Ora abbiamo il touch screen e il banco. Poi aggiungeremo lo smartphone. Poi chiuderemo il banco. Poi ci sarà solo lo smartphone. La gente si sederà a tavola e ordinerà dal telefono. L’ordine arriverà in cucina. E il personale arriverà con l’ordine dopo quattro minuti. Ecco perché abbiamo implementato anche il servizio a tavolo. Per portarci avanti di una decina di anni.

a cura di Francesco Cancellato - LinKiesta