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Da Europa 2020 stimoli alla crescita e alla competitività

Un’Italia che torna a crescere e a essere competitiva. Non è un sogno. Potrebbe essere realtà. A patto che il Governo dia concreta attuazione al programma nazionale di riforma e al programma di stabilità adottati ad aprile scorso. E che tenga conto delle raccomandazioni formulate al riguardo dalla Commissione europea. Ma non basta.
Com’è emerso al convegno dal titolo Quali riforme per la crescita? Italia ed Europa per la Strategia 2020 - svoltosi a Milano a giugno presso l’Università Bocconi nell’ambito dell’iniziativa congiunta Bocconi-Rizzoli Corriere della Sera Economia e società aperta - tutti gli italiani possono contribuire all’uscita del paese dalla crisi e alla ripresa dell’economia interna, assumendo un ruolo attivo, invece di limitarsi a fare da spettatori. Con quale ruolo? Promuovere e partecipare al dibattito sulla politica economica, sulle riforme, sulla crescita, favorendo l’adozione da parte del Governo di provvedimenti condivisi che garantiscano appunto un’accelerazione della crescita e una maggiore competitività della nostra economia.

Modello di sviluppo inclusivo

«Per l’Italia, paese spesso non incline per sua natura a una concentrazione riflessiva e operativa sul lungo termine», ha detto aprendo l’incontro Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi, «è particolarmente importante sfruttare appieno questo nuovo ancoraggio che l’Europa ci offre e propone, in particolare con la strategia Europa 2020. Guardare al lungo periodo è un compito che non spetta soltanto ai governi e ai parlamenti, ma anche alle classi dirigenti nel senso più lato. Ed è una benedizione per il nostro paese che la ridiscussione degli indirizzi di politica economica avvenga in un momento in cui l’Europa non è un entità evanescente, ma ben presente e d’indirizzo sulle scelte degli stati membri. Una discussione che in Italia mi auguro vada oltre l’angusto dibattito tra un ministro dell’economia, saggio tutore dei conti pubblici, e gli altri ministri che desiderano stimolare lo sviluppo, magari con misure di finanza pubblica. È tempo, infatti, che si metta mano ad altre riforme che da tanti anni si sarebbero potute fare e alle quali pure l’UE ci aveva già spronato in passato, seppure con voce più flebile di quella che ha ora. Penso alle riforme per liberare l’Italia dal male peggiore: quella complessa coalizione di corporativismi che frenano la crescita del paese e che danneggia in particolare i giovani».

«La strategia Europa 2020», ha sottolineato Lucio Battistotti, direttore della rappresentanza in Italia della Commissione europea, «non deve e non vuole essere un libro dei sogni, come lo è stata purtroppo in parte la strategia di Lisbona. È un progetto concreto per far uscire l’Europa dalla crisi, basato su un modello di sviluppo e di società non più solo liberista, bensì inclusivo e attento alla coesione sociale. Come hanno recentemente evidenziato l’Istat, la Banca d’Italia e Confindustria, il problema del nostro paese è la mancanza di competitività, che ci fa perdere il passo rispetto agli altri partner europei. Ebbene la strategia Europa 2020, che prevede un tasso d’occupazione del 75%, quando l’Italia oggi si trova al 69%, che intende favorire l’occupazione femminile, ora di 20 punti inferiore a quella maschile nel nostro paese, che spinge verso il raggiungimento di un tasso di laureati del 40%, contro l’attuale 22-23% italiano, fornisce diverse e concrete indicazioni sul da farsi. Indicazioni sulla cui attuazione il nostro paese sarà giudicato nell’ambito del sistema di sorveglianza previsto dalla stessa strategia Europa 2020».

Superare la precarietà dei giovani

Entrando nel merito del Programma nazionale di riforma e del Patto di stabilità varati dal Governo italiano, Anne Bucher, direttore delle riforme strutturali e competitività della Direzione generale affari economici e finanziari della Commissione europea, ha passato velocemente in rassegna le sei raccomandazioni formulate dalla Commissione al nostro paese, riguardanti il consolidamento fiscale, il mercato del lavoro, il più diretto legame fra salari e produttività, la concorrenza e la liberalizzazione dei servizi, la ricerca e l’innovazione e l’impiego dei fondi strutturali, per soffermarsi sulle questioni più delicate e potenzialmente più controverse: quelle relative al mercato del lavoro e alla concorrenza.

«Le raccomandazioni più importanti all’Italia», ha detto Bucher, «riguardano le riforme strutturali. Relativamente al mercato del lavoro, nello specifico, la Commissione ritiene che il Governo italiano dovrebbe sostenere maggiormente un cambiamento nel sistema di contrattazione collettiva per assicurare che i salari e la produttività siano più allineati. In un paese con differenze regionali marcate come l’Italia, riteniamo infatti che un sistema centralizzato della contrattazione non sia adatto, perché crea distorsioni e non favorisce una distribuzione ottimale delle risorse».

Pur valutando positivamente il fatto che i contratti collettivi rinnovati nel 2009 hanno aperto la strada alla contrattazione a livello aziendale, Bruxelles sollecita insomma l’Italia a sostenere di più quest’indirizzo e, per farlo decollare e applicare nel concreto, chiarendo, per esempio, chi è legittimato a negoziare i livelli salariali all’interno delle singole aziende.
Una seconda raccomandazione all’Italia in tema di riforma del mercato del lavoro riguarda la sua eccessiva segmentazione. Abbiamo troppi contratti collettivi nazionali e, al contempo, troppa sperequazione per quanto attiene la portata, la durata e i requisiti per l’accesso ai sussidi di disoccupazione.
«Le imprese italiane», ha osservato Bucher, «in misura sostanzialmente pari a quelle francesi, spagnole o tedesche, per aggirare le elevate tutele dal rischio licenziamento di cui godono i lavoratori contrattualizzati ricorrono a forme d’impiego temporaneo. Le tipologie di contratti a tempo del mercato italiano hanno però caratteristiche tali da rendere più difficile che nel resto d’Europa la transizione del lavoratore a rapporti più vantaggiosi e stabili». Ne deriva una situazione di precarietà più spiccata dei giovani italiani che li costringe a dover ricorrere al sostegno del genitori e che ne impedisce la mobilità territoriale e la possibilità d’avvantaggiarsi degli studi compiuti.

«Quanto al tema della concorrenza», ha detto Bucher, «le nostre raccomandazioni al Governo italiano riguardano in primo luogo la liberalizzazione del mercato dei servizi e il rispetto della normativa sui contratti». In Italia, rileva la CE, qualsiasi procedura si completa in tempi più lunghi: 1.200 giorni contro i 300-500 del resto d’Europa.
«Abbiamo altresì raccomandato al Governo», ha proseguito Bucher, «di adottare entro il 2011 la legge annuale sulla concorrenza, considerato che non è ancora stata emanata nonostante l’Antitrust italiano abbia formulato le sue raccomandazioni più di un anno fa, e di adottare misure più incisive per favorire l’accesso ai capitali da parte delle Pmi».
Nel mirino della CE anche l’eccessiva timidezza dell’Italia sul fronte delle liberalizzazioni nei servizi professionali e la scarsa incisività del Fondo italiano d’investimento e della Banca del Mezzogiorno.

Far ripartire il Nord

«Per accogliere le raccomandazioni della CE», ha detto Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, introducendo il dibattito, «ci vorrebbe un governo forte e una situazione politica stabile. Due condizioni che al momento non ritengo siano realtà. Quanto al Programma nazionale di riforma, mi pare che sia stato fatto controvoglia, come se non fosse considerato un traguardo importante per la crescita dell’Italia all’interno dell’UE e la strada maestra per il recupero della competitività. Sembra, insomma, un programma preterintenzionale». In tal caso noi italiani dovremmo confidare in una sorta di serendipity economica o in un fato favorevole.

«In effetti», ha convenuto Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, «a convincere un paese riluttante come il nostro a incamminarsi sull’impervio cammino delle riforme possono contribuire tre fattori. In primo luogo il nuovo assetto dell’Europa, che ha introdotto vincoli legali che danno contenuto alle politiche di sorveglianza macroeconomiche delle istituzioni comunitarie. In secondo luogo una Commissione uscita più forte e più indipendente nel potere di monitoring e di proposta dal recente negoziato politico. E infine la pressione dei mercati finanziari che, dopo un periodo di complacency verso l’eurozona, sono diventati piuttosto cattivi, direi addittura overreacting. Mi sento relativamente più ottimista anche a fronte del fatto che in Italia, ogni volta che la politica ha indicato la direzione e ha specificato chiaramente i costi, i benefici e i vincoli, i cittadini i sacrifici li hanno accettati e le scelte difficili le hanno percorse».

«Le riforme strutturali», ha osservato Antonio Spilimbergo, advisor del Fondo Monetario Internazionale, «sono imprescindibili per superare il divario di distribuzione del Pil esistente oggi fra Nord e Sud Italia. Divario che favorisce la stagnazione, mentre noi dobbiamo tornare a crescere, invertendo il trend che ha visto il nostro paese perdere un punto di Pil ogni decade dagli anni Cinquanta ai Duemila, e a puntare a un consolidamento fiscale».
Nonostante si possa notare che una zona dell’Europa che abbraccia più paesi e include il Nord Italia (ma non il Sud) gode di un Pil omogeneamente più elevato e di fatto non coincide con i confini nazionali, secondo Spilimbergo, ha ancora senso parlare di riforme strutturali da varare a livello nazionale. Se si guarda infatti al tasso di crescita del Pil nelle varie regioni d’Europa nel periodo pre-crisi, si nota che i confini dei paesi riappaiono sulla cartina. Che alcune regioni sono progredite, avvicinandosi a quelle più performanti d’Europa. La Spagna, per esempio. E che altre hanno perso terreno. E fra queste c’è anche il Nord Italia. «Questo», ha detto Spilimbergo, «ci fa capire che ridurre il divario Nord-Sud non è sufficiente. Che occorre anche far ripartire il Nord. E l’Europa, in qualità di arbitro imparziale, potrà contribuire a rompere il blocco creatosi in Italia, aiutandoci a raggiungere il consenso indispensabile per l’implementazione di efficaci riforme strutturali».

Riforme a costo zero

Dell’improrogabilità di riforme strutturali si è dichiarato convinto anche Tito Boeri, professore di Economia del lavoro presso l’Università Bocconi. «Sono d’altronde misure», ha detto Boeri «che possono rendere meno oneroso l’aggiustamento di 3 punti percentuali del PIL di qui al 2014, cui ci chiama l’UE. Un Programma nazionale di riforme e un Patto di stabilità più credibili ci aiuterebbero a incassare una maggior fiducia dai mercati finanziari e a dimezzare lo spread oggi esistente fra gli interessi dei nostri titoli di stato e quelli della Germania, con la conseguente riduzione degli oneri sui debito pubblico di 3 miliardi di euro nel 2011, di 6 miliardi nel 2012 e a regime di 12 miliardi. Se invece non faremo alcun intervento, bene che ci vada, potremo aspirare nel 2020 a tornare ai livelli di reddito del 2007, mentre il resto d’Europa sarà andato avanti».

L’errore dell’Italia, che ci ha portato alla situazione attuale, secondo Boeri, è quello di limitarci a essere rigorosi nel controllo dei conti pubblici, rimandando le riforme a quando le cose andranno meglio e a quando avremo più soldi per farle. «La mancanza di soldi», ha asserito Boeri, «non può essere una scusa per non fare le riforme. Moltissime delle riforme strutturali che la UE ci chiede di fare sono infatti a costo zero».
Fra queste Boeri annovera la riforma del mercato del lavoro. «Introdurre il salario minimo», afferma il professore, «per esempio, di per sé porterebbe a un decentramento della contrattazione, perché il contratto nazionale perderebbe il suo ruolo di riferimento giuridico».
A costo zero sarebbero anche riforme nel mercato dei servizi e dei prodotti e quelle sull’innovazione. «Da un recentissimo studio sugli ordini professionali in Italia», ha specificato Boeri, «emerge che sussiste una notevole disparità d’opportunità d’ingresso fra persone appartenenti o meno a famiglie già introdotte in una specifica professione. E che ove maggiore è l’ereditarietà nell’esercizio di una professione, peggiore è il servizio erogato. Nelle province dove maggiore è la presenza di dinastie di commercialisti, per esempio, l’evasione fiscale è più alta. Per quanto attiene invece alle riforme sull’innovazione, razionalizzare e rendere più stabili e certi nel tempo gli incentivi migliorerebbe l’efficacia delle misure di sostegno».

Specificità nazionali ed elementi comuni

D’ordine più generale gli interventi di Franco Bruni, docente di teoria e politica monetaria internazionale all’università Bocconi, e di Stefano Grassi, direttore del coordinamento politico ed Europa 2020 nonché segretario generale della Commissione europea.
Bruni ha osservato come la scarsa ambizione del Programma di riforme italiano, giudicato da Bruxelles insufficiente «per poter rafforzare significativamente il potenziale di crescita dell’Italia e stimolare la creazione di posti di lavoro nei prossimi anni», può ascriversi alla fragilità del consenso politico di cui gode il governo italiano, oltre che all’altissimo debito pubblico nazionale che lascia scarsa elasticità di brevissimo termine al nostro bilancio. Non tutte le riforme strutturali da affrontare sono infatti a costo zero. «Serie riforme della scuola, della giustizia, delle carceri, della sanità, del global planning, del turismo, dell’ambiente, della pubblica amministrazione», ha detto Bruni «comportano costi, investimenti o anche solo spese compensatrici di costi politici da sostenere per aver scontento alcuni gruppi di persone».
Capovolgendo la prospettiva la proposta di Bruni all’esecutivo è d’usare il Piano delle riforme per aumentare il consenso, invece che di guardare al consenso come precondizione per attuarlo. «Formuliamo il programma con una procedura coinvolgente», ha esortato Bruni. «Diamogli una struttura concentrata su pochi obiettivi. Curiamone un diffuso marketing politico. Facciamone un’occasione di partecipazione del paese. Spieghiamo con spietatezza la realtà delle cose, senza ottimismo alcuno, sfidando l’anfiteatro politico a dibattere sul serio fino a trovare le linee di consenso. Le riforme possono essere un elemento di mobilitazione politica di base, ossia l’opposto di un formale adempimento tecnico comunitario cui il Governo rispondere in modo difensivo e giustificazionista, come se veramente fosse un programma preterintenzionale come l’ha definito De Bortoli».

Grassi ha invece parlato di come le prime reazioni alle raccomandazioni agli stati membri abbiano fatto ritornare in auge in diversi paesi UE il tema dell’eccezionalità nazionale. «Ogni paese», ha riferito Grassi, «ha sostenuto che i suoi problemi sono così specifici e radicati che la sorveglianza multilaterale o le raccomandazioni di un ente terzo sovranazionale rischiavano d’essere astratte, ingiuste o impraticabili. In realtà l'impressione è che la specificità nazionale e gli elementi comuni nell’area euro non vadano messi in contrapposizione. La logica stessa del semestre europeo mira a conciliare generale e particolare. Parte da una discussione delle sfide comuni e indica una serie di priorità per far convergere le agende nazionali sulle medesime direttrici. I problemi degli stati membri sono infatti gli stessi: elevato debito, crescita lenta, mercato del lavoro segmentato, spesso non funzionante, produttività in molti casi stagnante. La logica dell’eccezionalità nazionale, oltretutto, porta a un’assuefazione rispetto ai problemi e a indebolire ogni volontà d’intervenire con riforme per risolverli».
Grassi ha sottolineato anche come l’Italia stia perdendo l’occasione per avvantaggiarsi dei fondi strutturali messi a disposizione dall’UE per ridurre il divario economico e sociale fra le diverse regioni. «Il tasso d’assorbimento di questi fondi», ha concluso Grassi, «è estremamente basso. È del 16% in Italia, contro una media in Europa del 25%. Ed è più basso proprio nelle quattro regioni che maggiormente potrebbero beneficiare del loro impiego. L’Italia non sta perdendo soltanto un’occasione che le è offerta. Ma mina anche la credibilità delle sue politiche regionali».

A cura di Luisa Contri

Allegati
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/PNR/pnr_05112010.pdf
http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/nrp/cp_italy_it.pdf
http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/recommendations_2011/csr_italy_it.pdf