02. L’inflazione sale e il lavoro non paga

In questo contesto per l’Italia, il cui debito pubblico è cresciuto del +16% in tre anni, portandosi a 2.917 miliardi di euro, proprio l’accurato utilizzo dei fondi del Pnrr (che valgono tre punti di Pil fino al 2026) è la discriminante tra un Pil debolmente positivo (+0,4%) e una crescita più significativa (+1,2 con il Pnrr).

È l’economia dello “zero virgola” che ritorna, è la considerazione del Rapporto Coop. Esaurita l’esuberante crescita postpandemica del 2021 e del 2022, l’economia italiana perde la spinta dei consumi che, solo grazie al sostegno dei risparmi e del credito al consumo (dopo 11 anni tornano a calare i depositi e sale il ricorso al credito al consumo), hanno sostenuto il Pil nella prima parte dell’anno.

Nei prossimi mesi le intenzioni di spesa degli italiani fanno segnare una brusca inversione di rotta (36% sono gli italiani che intendono ridurre i consumi al netto dell’inflazione contro solo l’11% che pensa di aumentarli) e anche i segnali che arrivano dallo scenario internazionale, dalla produzione industriale e dal mercato del lavoro non sono favorevoli.

La zavorra che appesantisce le prospettive è l’eccezionale crescita dell’inflazione che solo negli ultimi due anni ha abbattuto il potere d’acquisto in una misura pari a 6.700 euro pro-capite.

«Gli italiani sono stati colti a freddo dal ritorno dell’inflazione – aggiunge Russo – e le persone in difficoltà sono aumentate di 9 milioni in due anni, passando da 18 milioni nel 2021 a 27 milioni nel 2023. Neanche la classe media è rimasta immune dalle difficoltà: oggi meno della metà (46%) degli appartenenti alla middle class sarebbe in grado di far fronte a una spesa imprevista di 800 euro e solo un terzo di 2.000 euro».

Fig2_RapportoCoop23.jpgFigura 2 – Classe media più poveraFonte: Rapporto Coop, 2023

È l’altra faccia del lavoro povero: la dinamica delle retribuzioni resta ampiamente insufficiente (+2,3% su base annua nel secondo trimestre 2023) e dunque il lavoro, che sinora sembra esserci (nel 2023 sono 23,5 milioni gli occupati, mai così tanti dal 2008), non paga quanto dovrebbe (il 70% degli occupati dichiara di avere necessità almeno di un’altra mensilità per condurre una vita dignitosa). Da qui la tendenza ad aggiungere lavoro al lavoro come strategia di difesa dal carovita: il 27% degli occupati intende aumentare il numero di ore lavorate, fare lavoretti aggiuntivi (25%), far iniziare a lavorare persone della famiglia che prima non lavoravano (19%).

Ma anche, a dispetto di questo impegno ulteriore, il 10% degli italiani dichiara di non arrivare a fine mese e un ulteriore il 23% ci arriva ma teme costantemente di non farcela. Anche se in un qualche modo si sbarca il lunario si fanno grandi rinunce (20%) o comunque dei sacrifici. Infatti, solo un italiano su quattro dichiara di fare senza problemi la vita di qualche anno fa.

Tra quanti pagano, più degli altri, la difficile condizione sociale dell’Italia di oggi, certamente ci sono i giovani. La generazione Z (18-34 anni) vive in una sorta di apartheid in termini retributivi (e non solo); il dislivello generazionale fra loro e i baby boomer è impietoso e a fronte di una retribuzione media i primi scendono di un buon 23% mentre i secondi salgono di oltre un 17%. In sostanza, a parità di inquadramento, un giovane italiano guadagna quasi la metà di un over 50.

Fig3_RapportoCoop23.jpgFigura 3 – Il differenziale delle retribuzioni tra generazioniFonte: Rapporto Coop, 2023

Non stupisce allora se il 40% di loro si immagina di vivere altrove da qui a due/tre anni e il 20% sta già progettando di farlo.

A fare da sfondo è il tema del salario minimo, che trova favorevole il 68% dei manager, mentre 6 milioni di lavoratori italiani sono pronti a battersi per la sua introduzione. «Non si può non essere preoccupati di fronte all’impoverimento diffuso, alle disuguaglianze crescenti. E non è pensabile che 3 milioni e mezzo di persone siano pagate da 4 a 6 euro l’ora», sostiene Marco Pedroni, presidente Ancc Coop. «Occorre fare fronte a questa situazione perché l’ascensore sociale fermo mette a rischio intere generazioni che in futuro saranno un problema serio».

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