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Ieri oggi e domani di una strategia retail che deve essere ripensata

l'opinione di

Sul fronte dei comportamenti di consumo il ritorno alla normalità post-Covid non sarà un ritorno alla situazione precedente: il salto di discontinuità sarà consistente e non momentaneo né causato dalle implicazioni dovute alla quotidianità modificata dalla pandemia che agisce solo da acceleratore di tale evoluzione.

In nuce c’era già un mondo che stava diventando diverso, a partire del cambiamento del sistema di senso delle dimensioni sulle quali gestiamo la nostra quotidianità: spazio e tempo - e di conseguenza la nostra relazione con le attività di shopping e con i prodotti acquistati.

L’attesa di un ritorno alla normalità si associa alla sensazione e all’urgenza di riadattare la strategia ad un contesto che si presume sarà diverso, ma troppo spesso non si riesce a leggere i segnali che definiscono il mondo dei consumi di domani.

È cambiato il significato di senso dello shopping

È evidente che il mondo della grande distribuzione da tempo non intercetta più le tendenze più cooldei consumi. È finita da tempo l’epoca in cui lo shopping nella sua forma più pura da ipermercato e centro commerciale è in cima alle attività aspirazionali dei consumatori: ormai nulla più si compra senza emozione e l’emozione oggi è guidata dai linguaggi di entertainment e fuoricasa.

Le grandi superfici oggi non sono più di moda, meglio le botteghe sotto casa o i mercatini agricoli da esibire come novità sui social. Le fonti di emozioni oggi sono mutevoli, veloci, cangianti. La GDO invece oggi è ancora legata alle mode cavalcate negli anni passati: la spinta verso una premiumness che lavora sulla nicchia (pensando alla massa) e finge di personalizzare (aspirando allo standard); la rincorsa al modello Eataly di mercatino e contemporaneamente la competizione sulla convenienza con i discount con pressioni promozionali per lei insostenibili; l’inserimento di ristorazione dentro i supermercati che a mala pena si distingue da quella del bar di fianco ….

Standardizzazione, replicabilità infinita, grande traffico e volumi di vendita, sono un modello di business totalmente superato e rimanerci dentro per la GDO è un limite grosso e difficilmente monetizzabile oggi.

Tempo e spazio impongono di ridisegnare la customer journey

Il nuovo mondo di senso del tempo premia la rapidità e coglie l’opportunità. È ormai ben chiaro che la vera risorsa limitata per le persone è il loro tempo, e il valore del tempo è dato dal valore delle esperienze che sono vissute nel momento. Per questo le grandi superfici commerciali fanno fatica ad avere un saldo positivo: necessitano di troppe risorse da parte dei consumatori per l’ottenimento di un risultato molto spesso funzionale, banale, già vissuto. Vogliamo mettere i tempi e gli stimoli di un acquisto online?

Parliamo della nuova percezione di senso dello spazio: i consumatori oggi hanno poco tempo (prezioso) da dedicare per approfittare di molteplici occasioni di acquisto. Non si tratta solo di uno spostamento delle preferenze dei consumatori da grandi superfici a convenience o e-commerce, il cambiamento investe anche il come ci si muove nello spazio.

Le percorrenze sono cambiate nell’epoca Covid-19 e chissà cosa ne rimarrà dopo: ci si sposta il meno possibile all’interno dello spazio, differentemente da quello che induce l’istinto ci si dirige verso gli spazi vuoti e si evitano i percorsi perimetrali e le zone più affollate.  Questo dovrebbe portare ad un ripensamento delle normali percorrenze e layout dei pdv, ma anche ad una diversa concezione e costruzione delle categorie merceologiche.

Come per il tempo, anche lo spazio oggi è valutato in termini di valore esperienziale. A parità di unità di misura il retailer fisico deve offrire un contenuto maggiore rispetto ad altri canali.

Occorre rivedere in modo importante la natura e gli assortimenti di alcune categorie chiave (prime tra tutti il mondo della carne, del wellness e dietetica, delle specialità e del locale, dei prodotti “etnici”) alla luce della nuova visione che di queste categorie hanno i consumatori e ripensare a crossmarketing e acquisti di impulso in modo totalmente nuovo.

Il dilemma dei prodotti di impulso

Se ci si muove malvolentieri all’interno dello store e per poco tempo, se i fuoribanco soffrono della stessa malattia di attrattività degli iper, come comunicare e vendere prodotti di impulso che sono sostanzialmente fatti di capacità di emozionare e di sorprendere?

Il rischio oggi è recuperare malamente un concetto di efficienza mutuato dalle vendite di e-commerce. Non è l’efficienza che aiuta le vendite in store: la app di Wallmart che all’ingresso indica la posizione esatta dei prodotti cercati è la morte di qualsiasi commercio fisico. Lo shopping – anche del prodotto più funzionale vista la quantità di alternative a disposizione - è fatto di emozione e coinvolgimento.

In un momento in cui tutti i retailer spingono su efficienza dei processi di acquisto, che fine fa l’emozione, il self rewarding insito in qualsiasi acquisto? Come salvare gli store fisici se si abdica al loro vero punto di forza che è la capacità di costruire esperienze, soprese, novità, emozioni?

Questi tempi non sono fatti per i prodotti di impulso, non sembra ci sia spazio per loro nella realtà del commercio. Ma si ricordi bene che lo stesso shopping nasce e vive sull’impulso.

La GDO e i brand industriali

Ci si riduce a pensare che la convenienza sia l’obiettivo principale da perseguire oggi nel tentativo di rincorrere i consumatori così difficili da capire (lavorare sul prezzo è la cosa in fin dei conti più semplice anche se più costosa). Inutile inseguire su questo terreno i discount e Amazon: hanno sistemi di business diversi e sono quindi irraggiungibili sul fronte di costi/margini. Poi ci si ritrova con il fenomeno delle scarpe Lidl (che nel frattempo inizia anche a vendere domotica) e Amazon che commercializza anche i medicinali generici e non ci si capisce più niente, chi guida l’innovazione e chi il prezzo.

La GDO italiana in questo momento sta facendo davvero poco per i brand, e non solo per quelli più di impulso – come detto prima – ma in generale per tutti.

Evidente è la devastazione del pandoro di marca premium venduto da una nota insegna a 0,99 euro, ma non meno inconfutabili sono i 30 metri lineari di pasta di semola…

Indubbio che in questo momento la GDO riesca a fare qualità e appeal più con le proprie marche private che con i brand industriali, per assurdo questi ultimi meglio valorizzati nell’offerta di Amazon (ma per quanto?).

Cosa ci si aspetta dalla GDO italiana

Da un punto di vista di innovazione dei concept la GDO vive una oggi una dicotomia tra piazza del fresco e soluzioni frigorifere fredde: possibile non ci sia la possibilità di creare modelli diversi?

L’identità di insegna oggi è in gran parte persa, e non sarà un diverso stile pubblicitario o il logo della marca privata a fare la differenza. La lotta la si fa sui dettagli, mentre la omnicanalità è culturalmente e organizzativamente lontana dalla mentalità del settore.

Eppure se le opportunità commerciali sono nascoste oggi nell’intersezione tra i nuovi spazi e i nuovi tempi della quotidianità, e dalla centralità dell’esperienza, le possibilità di innovare e andare oltre i motivi di che hanno fatto il successo in anni passati e ora non più, ci sono sicuramente. Basta avere appunto il coraggio di distruggere (certezze passate) per ricostruire.

A partire da una diversa concezione di spazio e tempo. Dimensioni che non sono più fisse e oggettive ma che devono diventare flessibili e mutevoli nel corso della giornata, delle condizioni, dei momenti. Spazi retail che siano in grado di intercettare con velocità occasioni commerciali, che presidino bisogni di acquisto in maniera agile. Modalità espositive ripensate, che suggeriscano invece di contenere, che creino attenzione invece che posizionamenti di scaffale.

Si. L’epoca degli ipermercati è proprio finita, e che imparino prontamente la lezione anche i supermercati.