Clienti al centro per conquistare i risparmi
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Chi ha provato l’esperienza di prendere lezioni di tennis o squash ricorderà che, una volta imparato come impugnare la racchetta dalla parte giusta, i maestri insegnano subito a tenere la posizione al centro del campo, per evitare di essere spiazzati dai colpi dell’avversario e ridurre al minimo gli scatti nel corso delle partite, preservando le energie. Le prime volte è stato difficile ricordarsene, dovendo inseguire palle veloci, attenti a colpirle in modo appropriato. Ma anche quando si è stanchi e la lucidità viene meno si finisce per dimenticare una regola d’oro utile per vincere le partite.
Per analogia le aziende, anche nei momenti di difficoltà e forte pressione sui risultati, dovrebbero ricordare sempre di mettere i clienti al centro delle loro decisioni, tanto che si tratti di quelle strategiche o piuttosto operative. Che significa comprendere i comportamenti, gli atteggiamenti, i bisogni, le aspirazioni, tenendo in considerazione la dimensione umana complessiva dei clienti–utenti–cittadini, i quali qualche volta sono shopper, qualche volta consumer, e spesso audience. Con un approccio olistico, per usare un termine di moda, in un’epoca caratterizzata dalla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione e dei punti di contatto. Un approccio da adottare a maggior ragione quando l’economia è debole, la fiducia bassa, il potere d’acquisto e la spesa in flessione, per motivi in parte contingenti e in parte di natura strutturale. L’unico modo, forse, per comprendere fenomeni che in taluni casi appaiono inverosimili. Un esempio per tutti: mentre ci lamentiamo che le famiglie non arrivano alla quarta settimana, con Nielsen che nel 2012 ha registrato una flessione di 2 miliardi di vendite nei super e ipermercati, attribuibile in parte alla scelta di prodotti meno costosi e in parte, per circa 800 milioni, alla rinuncia di un atto d’acquisto, il gioco d’azzardo (legale) ha attratto 14,1 miliardi in più rispetto all’anno precedente, un incremento pari alle dimensioni del mercato nel 2000 (14,3 miliardi), che ha consentito di raggiungere la cifra record di 94 miliardi spesi in un anno.
E come mai, sempre secondo Nielsen, nel periodo 2010–2012 la quota di mercato per i prodotti alimentari dei negozi tradizionali, dei mercati e degli ambulanti è diminuita solo di 4 decimali? E dal 2000 al 2012 distribuzione moderna e negozi tradizionali hanno perso quasi un punto percentuale rispetto a tutti gli altri canali alternativi, che pesano ancora il 12,7%?
Ancora in agosto, ben prima dello shutdown di fine settembre, negli Stati Uniti le vendite retail sono cresciute solo dello 0,2 sul mese precedente, molto meno del +0,5 atteso e quasi solo grazie al rinnovo del parco autovetture, rinviato a lungo durante la crisi. Nel mese di luglio, invece, i distributori australiani si sono strappati le vesti perché le vendite al dettaglio sono cresciute di uno 0,1 dopo un giugno piatto, con i grandi magazzini che hanno fatto registrare addirittura un -8%. Eppure stiamo parlando di due paesi le cui economie in quei mesi potevano presentare indicatori ben più tranquillizzanti dei nostri. Invece le bollette energetiche, il costo del carburante e le prospettive sempre meno chiare dell’evoluzione dell’economia mondiale hanno influenzano anche i cittadini–clienti–utenti australiani e statunitensi.
A rinforzare la sensazione che la percezione della situazione economica giochi un ruolo più forte della stessa realtà contribuisce uno studio condotto da Nielsen in 14 paesi tra Nord e Sud America, Europa e regione Asia–Pacifico. Infatti, nonostante nella maggior parte di essi la recessione sia terminata nel 2009, il 72% del campione intervistato afferma di sentirsi ancora in piena crisi economica e si comporta di conseguenza. Così tanto nei paesi più avanzati che in quelli in via di sviluppo il numero medio di visite ai punti di vendita è passato dalle 158 del 2008–2009 alle 144 dell’ultimo anno. E, invece che andare a fare shopping, la gente (80% degli intervistati) preferisce trascorrere più tempo con gli amici e i parenti. Un po’ si tratta di mutamenti nella gerarchia dei valori. Ma anche perché, diciamocelo: l’acquisto di prodotti non problematici si traduce in una serie di attività di routine che non procurano piacere, né tanto meno alcuna dipendenza di tipo compulsivo.
Una popolazione sempre più vecchia, dei tassi di natalità modesti, le prospettive economiche ancora incerte inducono a prevedere opportunità di crescita molto modeste per la grande distribuzione del largo consumo nei comparti dei prodotti confezionati. Lo stesso dicasi per il non alimentare, dove si assiste spesso a una dissonanza preoccupante nell’offerta, che mette di fianco alle grandi marche del largo consumo emeriti Carneadi o articoli ‘unbranded’, come se a frequentare i diversi reparti fossero due tipi di pubblico completamente diversi, oppure una clientela schizofrenica amante delle brand nel grocery e no logo per il resto. Diverso il discorso del fresco a peso variabile, che dovrebbe tuttavia essere ripensato per poter competere con quei canali alternativi tradizionali, come le macellerie, le salumerie, i fruttivendoli e i mercati rionali e ambulanti, che offrono in genere una qualità e una personalizzazione del servizio superiori, così come con i produttori che vendono direttamente frutta e verdura a chilometro zero. Un fenomeno in crescita che coniuga la garanzia del produttore locale, con la difesa dell’economia della propria comunità d’appartenenza.
Un’altra area di potenziale e significativo sviluppo, il mercato dei senior, i cui bisogni sono senz’altro più qualitativi che non quantitativi e maggiormente orientati alla salute e al benessere.
E per le catene specializzate non alimentari? Qui il discorso si complica, come tutte le volte che si parla di tutta l’ampia gamma di prodotti e servizi che hanno sofferto una flessione delle vendite a doppia cifra nel corso degli ultimi anni. I prodotti hanno processi d’acquisto di tipo problematico e, soprattutto, richiedono investimenti spesso consistenti. E le fasce d’età che mostrano maggior interesse nei confronti di queste tipologie di prodotti (e servizi) sono quelle con un reddito e un potere d’acquisto inferiore, toccate in misura consistente dalla crisi. Individui e famiglie che forse non acquisterebbero nemmeno se la situazione percepita fosse migliore e che, a maggior ragione, non lo fanno nel momento in cui tutti i mezzi di comunicazione concorrono a creare un clima di sfiducia e pessimismo. Come se dietro alle linee editoriali catastrofistiche nelle quali si incaponiscono vi fosse un grande disegno orchestrato da qualcuno che ha un concreto interesse nel deprimerci. O forse nel prepararci al peggio.
Eppure, se si volesse trasmettere speranza, gli argomenti non mancherebbero. Dati comparati del 2010, forniti da Civicum in collaborazione con il Politecnico di Milano, mostrano che la spesa pubblica procapite degli italiani era di 12.965 euro, contro i 13.825 della Gran Bretagna, i 14.495 della Germania e i 16.935 della Francia. A testimonianza del fatto che forse spendiamo male ma non più degli altri paesi con cui siamo abituati a confrontarci. Nel rapporto tra spesa pubblica e pil noi (50,4%) siamo meno virtuosi della Germania (47,5%), pari alla Gran Bretagna (50,2%) e comunque meglio della Francia (56,6%). Non certo una situazione disastrosa, che certo rischia di essere aggravata dalla progressiva erosione del nostro prodotto interno lordo. Un problema tuttavia di crescita questo, più che di efficienza e politiche sociali esasperate. D’altronde sottrarre risorse alla spesa pubblica sana, destinata a servizi di qualità per i cittadini, nel breve periodo potrebbe tradursi in una ulteriore riduzione di spesa per prodotti di largo consumo e durevoli, a tutto vantaggio delle voci nel bilancio famigliare destinate alla sanità, ai piani pensionistici privati, e all’istruzione. Per non parlare dei posti di lavoro cancellati e, quindi, di un minore potere d’acquisto.
Nel breve, quindi, è difficile non essere tentati dal pensiero di attingere a una risorsa preziosa di cui gli italiani abbondano: il risparmio. È uscito a settembre un articolo sul Corriere della Sera, basato su uno studio di Unicredit–Pioneer, nel quale si evidenziava che il risparmio nel 2011 rappresentava ancora qualcosa come 8 mila miliardi. Il nostro debito pubblico quindi era pari al 22% della ricchezza degli italiani, rapporto che è del 23,3% per gli americani e del 22,2% per i tedeschi, paesi trattati entrambi con grande riguardo dalle agenzie di rating. E bisogna osservare che gli italiani erano meno indebitati a livello privato (88% della ricchezza), contro il 100% di tedeschi e americani e oltre il 110% di francesi e tedeschi.
Certo, si tratta di una ricchezza che è stata erosa nel corso degli ultimi anni dalla minor disponibilità di reddito da dedicarvi e dalla quota destinata ai consumi. Eppure, insieme alle nostre eccellenze, può oggi rappresentare il carburante per rimettere in movimento l’economia del paese. Anche perché, sempre lo studio dell’Istat, evidenzia che prescindendo dalla ricchezza immobiliare il resto è rappresentato ancora per oltre il 50% da depositi. Ovvero da denaro che i privati non investono in consumi ma nemmeno servono a finanziare le aziende, e che le banche utilizzano sempre meno per favorire gli investimenti di privati e imprese.
Ma come convincere i cittadini–elettori–clienti e utenti a destinare parte dei propri risparmi ai consumi? Perché, purtroppo, sempre secondo Istat nel 2010 metà della ricchezza era posseduta da chi appartiene alla fascia d’età 45–54 anni. Quasi il 35% dagli over 65. Oltre il 46% dal 10% più ricco dei nostri concittadini. Mentre il 50% meno abbiente ne controllava solo il 10%. E gli under 34 solo l’11,4%. Ovvero chi ha il pane non ha i denti, usando un modo di dire popolare anni fa.
Come “scatenare” allora questa energia mettendo al centro il cittadino–utente–cliente, senza ricorrere alla solita ‘patrimoniale’ più o meno mascherata?
Forse i senior potrebbero essere incentivati a investire nelle start-up, invece di lasciare i soldi nel materasso. A patto che modelli di business e criteri manageriali offrano le adeguate garanzie per rendere l’investimento meno rischioso del gioco d’azzardo. Perché troppo spesso le start up vengono mitizzate prescindendo dalla realtà dei fatti: per ogni successo divenuto famoso, ci sono 999 fallimenti di cui nessuno parla mai.
Oppure potrebbero finanziare aziende sane, con concrete prospettive di sviluppo, interessate a quotarsi in Borsa per poter crescere. E, anche in questo caso, qualcuno dovrebbe assicurare le dovute garanzie per gli investitori, considerati troppo spesso da imprenditori e finanzieri d’assalto quelli a cui lasciare in mano il cerino.
Infine si potrebbero individuare modalità di trasferimento ‘anticipato’ di quote di risparmio dai genitori ai figli, per consentire loro di essere indipendenti, formare una famiglia e rimettere in moto i consumi delle generazioni a più elevato potenziale di bisogni. Un fenomeno che a livello privato accade già spesso, ovviamente. E che qualche istituto formale di solidarietà tra generazioni, che punti su incentivi a livello fiscale, potrebbe contribuire a rendere più diffuso.
Idee banali, e forse bizzarre, dalle quali un economista o un politico potrebbe partire per trovare soluzioni efficaci e perseguibili.