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La marca commerciale diventa adulta

La nona edizione dell’Osservatorio annuale sulla Marca commerciale in occasione di Marca a Bologna ha in qualche modo certificato che in un anno di grandi difficoltà, l’unica stella a brillare nel largo consumo confezionato è stata quella dei prodotti a marchio del distributore. Con un fatturato di 9,3 miliardi di euro ha raggiunto la quota del 18,1% delle vendite complessive, con una crescita del 7,3% rispetto al 2011 e garantisce agli shopper un risparmio medio del 17%.

È una marcia resa ancora più spedita dalla crisi e dalle scelte dei consumatori (e dei distributori), se si pensa che nel 2001, l’ultimo anno della Lira, le private label pesavano per il 10,3%. Altri tempi.

In mezzo ci sono stati molti cambiamenti, ma soprattutto, come ha ricordato Gian Maria Marzoli, vice president di Symphony Iri nella sua presentazione, se già il 2011 aveva segnato un balzo avanti della marca commerciale, nel 2012 si sono accumulati una serie di elementi che rendono ancora più significative le sue performance. Il calo dei consumi (-1,1% a valore per il largo consumo confezionato), più marcato al Sud (-4,4%) e nei classici canali della Gdo (iper, super e piccole superfici), mentre hanno tenuto meglio i superstore, i discount e i drugstore. A questa situazione fa riscontro un’inflazione cresciuta del 2,1%, con una pressione promozionale che ha raggiunto il 26%, anche se la sua efficacia negli ultimi mesi dell’anno è risultata in diminuzione o stabile. Così come risulta essere stabile la numerica assortimentale, a significare un sostanziale stallo nel tasso di innovazione dei prodotti, mentre l’offerta a scaffale della marca commerciale è aumentata del 3,2%.

Sul fronte del consumatore, poi, si è assistito alla messa in atto di scelte di trading down: adesione massiccia alle promozioni, con l’utilizzo del volantino che ha sfiorato il 90%, nomadismo di canale e per categorie di prodotto (3,7 il numero medio di punti vendita visitati), nonché di brand (nel 2008 era il 14% a dichiarare di non avere difficoltà a cambiare marca, nel 2012 è stato il 60%): minore fedeltà, dunque e anche maggior e frequenza di acquisto.

«In tale contesto, spiccano alcune considerazioni» sottolinea Marzoli « a partire dal fatto che le vendite del Largo consumo in Gdo diventano negative dopo l’estate, in particolare novembre è stato un mese particolarmente pesante; i prodotti di marca registrano una negatività lungo tutto il corso dell’anno, mentre per le private label gli ultimi 3-4 mesi dell’anno segnano un rallentamento della crescita. Tuttavia, la crescita delle vendite dei prodotti di largo consumo confezionato negli ultimi cinque anni è sostanzialmente legato allo sviluppo della marca commerciale, ampliando la forbice della crescita con i prodotti di marca».

Così se il 2011 era stato contrassegnato dalla ripresa di inflazione, dalla mancanza di innovazione, dall’ingresso della marca commerciale nei volantini e dall’aumento degli assortimenti, nel 2012 il tratto caratteristico è una crescita delle private label in tutti i reparti, diventando leader in 68 categorie e superando il 30% di quota in altre 69. Secondo Marzoli «Questo significa assumersi gli onori e gli oneri della leadership di categoria», come si vedrà in seguito.

Ma quali sono i driver di crescita della private label? Diversi i motivi. Primo, si amplia il segmento della convenienza, in crescita del 4,9%, frutto del trading down del consumatore. «In questo segmento, che vale circa 15 miliardi di euro» commenta Marzoli «la private label cresce del 5,7%, ma nel discount dell’8% e la marca industriale diminuisce del 3,1%. Per contro, il segmento premium non cresce, ma cresce la private label premium, del 7,6%. Significa che la marca commerciale ha fatto trading up, ampliando il mix merceologico ed entrando in nuove categorie e segmenti a maggiore valore aggiunto come i prodotti freschi e il vino. «Nell’ultimo anno e mezzo vi sono stati lanci di nuove linee di marche commerciali e redesign di molte esistenti» sottolinea Marzoli «oltre all’aumento della presenza sugli scaffali con un aumento della profondità assortimentale in lineari sostanzialmente stabili. Tutto ciò ha segnato un rafforzamento competitivo in ciascun reparto e segmento di mercato. La crescita dell’offerta apre però la porta a una serie di considerazioni».

Da un lato in alcune categorie diminuisce la quota, dall’altro, dove la private label ha quote che sfiorano il 20%, gestire l’assortimento diventa un onere, senza considerare che l’aumento di promozionalità delle marche leader riduce il differenziale di prezzo. «Oggi la dimensione della convenienza assoluta» sottolinea Marzoli «prevale rispetto alla convenienza relativa di prezzo con il leader di categoria. Quindi l’individuazione del corretto posizionamento di prezzo rimane un’area di opportunità. Anche se la marca commerciale è meno sensibile al prezzo, ragionare sul suo posizionamento consente di migliorare volumi e marginalità, perché, non dimentichiamolo, la private label è una leva competitiva determinante per il successo dell’impresa distributiva».

Sulla segmentazione si è soffermato Guido Cristini, docente all’Università di Parma e responsabile scientifico dell’Ossevatorio sulla marca commerciale, che ha sottolineato, in una complessa analisi che ha incrociato i dati di categorie e segmenti di prodotto, alcuni punti fermi.

Primo, che il successo delle marche commerciali è frutto delle politiche di segmentazione, che i diversi segmenti sono trainati dai nuovi codici di private label immessi sul mercato (quindi dal tasso di innovazione), e che quando l’esercizio al distributore riesce, si genera valore. In questa strategia di segmentazione è significativo il traino dei nuovi prodotti a marchio del distributore nella crescita delle vendite, tanto che le prime 10 categorie sono cresciute maggiormente in relazione ai nuovi codici Ean. Dall’analisi di Cristini, che ha messo a confronto alcune categorie particolarmente concentrate (con almeno tre leader che coprono una quota del 60-65%) e altre categorie frammentate (senza marca leader), emerge che l’inserimento di nuove referenze di marca commerciale in categorie in sviluppo ha particolare successo in quanto contribuisce ad accrescere il fatturato, migliora la marginalità relativa. Riduce la concentrazione delle marche industriali e aumenta l’alternativa di prezzo per il consumatore.

Appare abbastanza evidente che lo sviluppo della marca commerciale, nella complessa gestione dello scaffale in rapporto con le marche industriali in un contesto di aumento dell’intensità promozionale e di differenti posizionamenti, per i retailer si gioca, secondo Marzoli, nella capacità di gestione delle referenze per segmentazione e per differenziazione, delle relazioni con i copackers, del pricing in chiave di marginalità e volumi (chi ha spinto sulla promozionalità della marca commerciale ha ridotto lo sconto) valutando anche il ritorno degli investimenti promozionali.

Ne è cosciente la distribuzione? Secondo Giuseppe Parolini direttore generale estero di Crai il tema della segmentazione è un tema nuovo, che cambia l’approccio di marketing del distributore: «Oggi siamo abbastanza bravi a sviluppare progetti di nuovi prodotti. Come diventarlo altrettanto a venderli? Occorre capire che tutto il marketing dell’offerta deve essere declinato sulle linee di prodotto, valutando il ritorno dell’investimento e ruolo e funzionamento della private label analizzando l’incrocio tra segmentazione e categoria».

Secondo Danilo Preto, direttore marketing di Sisa, fondamentale per il futuro sarà la razionalizzazione degli assortimenti, sempre nell’ottica di una maggiore consapevolezza dei gusti della clientela. E alla stessa clientela si richiama Andrea Colombo, Chief operative officier Billa Italia, quando ricorda che nello sviluppo dei prodotti (Billa ha avviato l’inserimento della marca commerciale insegna dal 2010) vengono effettuato test sensoriali in collaborazione con il Distam dell’Università di Milano che mette a confronto prodotti leader di merctao con altri prodotti facendo scegliere ai consumatori, seguiti poi dalla messa a punto di tender con fornitori sulla base di capitolati precisi che mettono al centro la qualità richiesta dal cliente.

«La qualità» sottolinea il direttore offerta e acquisti di Auchan Fabio Sordi «è requisito indispensabile per posizionare i prodotti sugli scaffali. Qualità significa caratteristiche organolettiche, ma anche vicinanza ai produttori che hanno difficoltà a mantenere determinati standard. Per questo motivo da qualche anno abbiamo cominciato con i produttori un percorso comune, di accompagnamento per coprire determinate nicchie, aumentare la qualità e l’ampiezza degli assortimenti in una chiave di vicinanza con il territorio. La private label per le Pmi è una modalità per far conoscere la qualità delle loro produzioni, a volte superiore a quella dei leader di mercato. Al loro successo contribuiscono poi la presa di coscienza e l’atteggiamento “laico” dei clienti».

Il terreno di collaborazione tra industria e distribuzione fa da sfondo alle riflessioni di sviluppo della marca commerciale, come ha sottolineato Marzoli, ma come aveva ben chiarito in precedenza il presidente di Adm Camillo De Berardinis, rilevando che «Il 92% dei produttori delle private label sono imprese italiane che, attraverso il rapporto e le sinergie con la GDO, hanno la possibilità di ottimizzare i propri processi produttivi e pianificare investimenti volti a migliorare strutturalmente la propria azienda, e di queste il 78% sono piccole e medie imprese, che hanno l'opportunità, attraverso la GDO, di accedere ai grandi mercati nazionali e internazionali».

E per Roberto Della Casa, Docente di Marketing dei prodotti agroalimentari e gestione delle imprese agroalimentari dell’Università di Bologna, la distribuzione moderna, con la marca privata, rappresenta un futuro concreto per il sistema agricolo italiano. E l’accordo di Sisa con Unaprol (società della Coldiretti) per la produzione di Olio extravergine di oliva a marchio del distributore, così come quello di Coop sempre con Coldiretti per la pasta, traccia anche un’idea di percorso virtuoso. «La crescita delle imprese agricole italiane» sottolinea Della Casa «potrà essere garantita proprio dalle vendite alla distribuzione moderna insieme a uno sviluppo dell'export, che consenta di sottrarre dal mercato interno eventuali sovrapproduzioni anche minime, ma oggi in grado di dimezzare le quotazioni delle derrate agricole.

Alla distribuzione moderna va dato il merito d'aver dato un decisivo contributo allo sviluppo d'intere categorie merceologiche e a un aumento tout court dei relativi consumi. I motivi per cui non tutte le imprese agricole hanno sfruttato il volano della Gdo dipendono da carenze organizzative, più che dalle dimensioni delle produzioni, che saranno superabili, quando le imprese agricole saranno in grado di standardizzare e programmare le produzioni, certificarle in modo adeguato e governarne l’immissione sul mercato».