economia

02. Made in Italy alimentare, motore di crescita ai box

Le potenzialità per fungere da leva della crescita del paese il made in Italy alimentare le ha tutte. E alla massima potenza. Ciò che ancora manca è una strategia unitaria di sostegno all’export del nostro life style, agognato dal 99,17% della popolazione del pianeta.

È emerso dalla prima tavola rotonda del Forum Food & Made in Italy, durante la quale i tre ospiti: Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, Lisa Ferrarini, presidente di Assica e del Comitato tecnico per la tutela del made in e la lotta alla contraffazione in Confindustria, e Andrea Illy, presidente della fondazione Altagamma nonché presidente e amministratore delegato del gruppo di famiglia hanno avanzato tre soluzioni.

Più vicine quelle proposte da Farinetti e Illy. Entrambi propongono l’adozione di un marchio collettivo. Farinetti, però, pensa al marchio Italia specifico per l’alimentare, partendo da dato di fatto che gli stranieri faticano a riconoscere il prodotto italiano autentico, non conoscendo il nostro sistema delle denominazioni d’origine. «Il suo logo potrebbe essere una mela tricolore», ha detto il patron di Eataly nel videomessaggio ai partecipanti al Forum. «Ma si può scegliere anche un altro simbolo. L’importante è che ci riappropriamo della nostra bandiera e che facciamo in modo che non possa essere usata da altri».

Il marchio Italia dovrebbe ovviamente basarsi su un macrodisciplinare che fisserà i paletti della qualità. Anche su questo fronte Farinetti propende per tre sole regole: niente concimi chimici, niente Ogm, niente diserbanti, ma è aperto alla discussione. E andrebbe pubblicizzato con una mega-campagna di comunicazione che spieghi al mondo che, se cerca un prodotto autenticamente italiano, deve controllare che porti quel marchio, esattamente come si fece in passato col marchio pura lana vergine. «Smettiamo di dire piove governo ladro», ha esportato Farinetti. «Mettiamo le persone giuste nei posti chiave, per far sì che le istituzioni accompangino veramente le nostre imprese nella conquista dei mercati esteri. E soprattutto cerchiamo di fare il nostro dovere. Il futuro del nostro paese dipende anche dalle nostre scelte, dalla nostra volontà, dal nostro coraggio».

Illy ha una visione più ampia. Propone il marchio collettivo ideato dal designer pubblicitario milanese Maurizio Di Robilant che si è fatto promotore della Fondazione Italia patria della bellezza, organizzazione che vuole mettere a sistema tutti i patrimoni della bellezza del Belpaese siano essi dell’arte, della cucina, del paesaggio, della cultura, dell’architettura. Un marchio che sarà concesso da un comitato d’esperti. «L’importante è che facciamo una cosa sola», ha detto Illy, «non possiamo arrivare sui mercati divisi come spesso avviene. In particolare oggi che il consumatore privilegia la qualità, quando percepisce il contenuto esperienziale del prodotto. E in prospettiva. La nuova frontiera del lusso, un mercato che sfiora il trilione di dollari, è infatti il food ».

Distante la posizione di Confindustra presentata da Ferrarini. L’associazione degli industriali sta lavorando a livello europeo sul made in. «Nel made in Italy», ha detto Ferrarini, «abbiamo già un marchio meraviglioso. Mi concentrerei su quello. E sul riconoscimento come italiano del prodotto la cui ultima trasformazione sostanziale è avvenuta nel nostro paese. in altri termini auspichiamo il riconoscimento del codice doganale, così da far rientrare il prodotto alimentare nel pacchetto sicurezza e tutelare il consumatore con la tracciabilità. Francamente non mi sembra il caso, almeno nel settore dei salumi, di buttare al vento le nostre Dop e Igp, un patrimonio che il mondo c’invidia ».

Ferrarini auspica anche la creazione di un ministero dell’Alimentazione, che tuteli efficacemente la nostra industria da azioni protezionistiche, da barriere sanitarie pretestuose opposte da paesi terzi. Un ministero unico al posto dei tre che s’occupano dell’alimentare oggi (Politiche agricole, Sviluppo e economico e Sanità) che contrasti il fenomeno dell’Italian sounding, stipulando patti bilaterali con le nazioni extra Ue, e che sostenga finanziariamente le aziende con fondi per l’export su cui altri paesi europei come Germania e Francia possono contare.

«Non credo che sia col made in o con delle norme di legge», ha obiettato Illy, «che riusciremo a sostenere efficacemente lo sviluppo del nostro export. Ritengo piuttosto che si debba lavorare a un riposizionamento qualitativo del made in Italy e sul branding per conquistare i consumatori. Per poter crescere dalla taglia micro alla mini, alla media e alla grande le aziende italiane debbono fare una politica di marca e avere una strategia».

A cura di Luisa Contri