sostenibilità

Alimentazione sostenibile: parola di Barilla

“Scegliere ogni giorno un’alimentazione equilibrata dal punto di vista nutrizionale è importante per la nostra salute, ma anche per la salvaguardia dell’ambiente. Infatti le scelte alimentari sono responsabili del 25% dell’impatto ambientale di ogni persona”. Comincia con queste parole il Manifesto per un’alimentazione sostenibile lanciato dal Barilla Center for food & nutrition in occasione dell’incontro organizzato a Milano a fine giugno durante il quale è stata presentata la Doppia piramide alimentare e ambientale, che concilia una cultura alimentare sana con la tutela e la salvaguardia dell’ambiente.

Se infatti, la piramide alimentare rappresenta una sintesi delle principali conoscenze acquisite a partire dagli anni Settanta dalla medicina e dagli studi sull’alimentazione e si presenta come un potente strumento di educazione al consumo, la vera novità consiste nella piramide ambientale, che ha una forma rovesciata rispetto alla prima. Infatti nella piramide alimentare vi è una disposizione scalare dei vari alimenti in base alla loro rilevanza nell’alimentazione quotidiana, al loro contenuto di nutrienti e alla frequenza con cui dovremmo consumarli per preservare salute e benessere, suggerendone un consumo decrescente dalla base al vertice della piramide. Viceversa la piramide ambientale posiziona gli alimenti in funzione della stima degli impatti ambientali associati a ogni singolo alimento sulla base di tre indicatori: il Carbon Footprint, cioè le emissioni di gas serra misurato in massa di CO2 equivalente, il Water Footprint, che quantifica i consumi e le modalità di utilizzo delle risorse idriche ed è misurato in volume d’acqua e l’Ecological Footprint, che misura la quantità di terra (o mare) biologicamente produttiva, necessaria per fornire le risorse e assorbire le emissioni associate a un sistema produttivo. L’unità di misura è in metri quadrati o ettari globali.

«Il metodo di analisi» ricorda Barbara Buchner, direttrice del Climate Policy Initiative di Venezia, rimarcando come l’attività agricola sia responsabile della produzione di gas serra per una quota pari al 33% del totale delle emissioni annuali nel mondo «è stato quello dell’analisi del ciclo di vita (Lca, Life cycle assessment) sull’intera filiera: estrazione, coltivazione, trattamento delle materie prime, fabbricazione, confezionamento, trasporto, distribuzione, uso, riuso, riciclo e smaltimento finale». In questo modo si possono analizzare gli impatti di due tipologie di diete oggi prevalenti: un individuo che si nutre seguendo la dieta nordamericana (consumo prevalente di carne, dolci e alimenti a elevato contenuto di zuccheri e grassi) ha ogni giorno un’impronta ecologica di 26,8 metri quadrati e immette nel’atmosfera 5,4 kg di CO2. Chi si nutre secondo la dieta mediterranea (prevalentemente carboidrati, frutta, e verdura) ha quotidianamente un’impronta ecologica di 12,3 metri quadrati e immette in atmosfera circa 2,2 kg di CO2.

Dal punto di vista nutrizionale, sottolinea Camillo Ricordi dell’Università di Miami, «non v’è dubbio che il modello alimentare mediterraneo sia fra i più coerenti nel quadro di una pratica alimentare volta alla prevenzione delle malattie legate a stili scorretti (un euro investito in prevenzione è infatti pari a tre euro risparmiati in trattamenti per malattie), ma non bisogna demonizzare alcun alimento particolare. Si tratta solo di limitare le componenti nutrizionali meno sane».

Ma è sul fronte dell’analisi dell’impatto ambientale dell’alimentazione che sono giunte conferme e warning. Mathis Wackernagel, presidente e fondatore di Global Footprint Network pone l’accento sul rapporto tra consumo delle risorse del pianeta e biocapacità, cioè le aree bioproduttive (campi, foreste, ecc) disponibili per l’uomo. Ne esce un quadro di totale debito ecologico per il nostro Pianeta: «Negli anni 60 l’indice di biocapacità era 0,4, oggi è di 1,4», afferma Wackernagel. O, detto in altri termini, oggi si consumano le risorse di una Terra e mezza. Ma secondo gli scenari più cauti nel 2050 consumeremo 2,5 volte le risorse disponibili del pianeta. Quindi, è il ragionamento del fondatore del Global Footprint Network, poiché la biocapacità è in rapida riduzione nella quasi totalità dei Paesi, l’idea dell’impronta ecologica è la strada percorribile per garantire lo sviluppo. Tanto che, Stati, banche, soggetti economici hanno capito che la via dell’impronta ecologica è una strada percorribile a vantaggio di tutti: l’Equador si sta impegnando per annullare il proprio deficit ecologico entro il 2013, la banca svizzera Sarasin ha elaborato un sistema di rating delle obbligazioni emesse dagli Stati che prende in considerazione l’uso e la disponibilità di risorse a garanzia del debito futuro e in Australia è stato calcolato che per ogni metro quadrato di spazio di vendita di un general retailer sono necessari 1,650 metri quadrati di impronta ecologica.

«È impossibile proseguire il nostro percorso non sostenibile» aggiunge Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia «se non mettiamo dei paletti ai grandi indicatori economici, coniugando contabilità economica e contabilità ecologica».

Sul banco degli imputati i combustibili fossili e l’industria delle carni. Anticipando i dati del prossimo Living Planet Report, con tre miliardi di persone che desiderano crescere nella catena alimentare, i 245 milioni di tonnellate di carne oggi consumati diventeranno 490 milioni nel 2050.

E visto che oggi gli allevamenti sono responsabili del 18% delle emissioni di gas serra, non è difficile immaginare che cosa significherà. Lo spiega Jeremy Rifkin: «Per ogni grado centigrado di aumento della temperatura, l’atmosfera assorbirà il 7% in più dalle precipitazioni al suolo, con il risultato di maggiore calore, più inondazioni e più siccità».

Anche il quadro dipinto dall’economista Andrea Boltho non è tranquillizzante: «In prospettiva aumenterà la domanda di cibo sia per l’aumento della popolazione mondiale, sia per la probabile rapida crescita del reddito nei mercati emergenti con conseguenti effetti sui consumi alimentari. Contemporaneamente però il degrado dei suoli, il cambiamento climatico e la produzione di bio-carburanti potrebbero ridurre la produzione del 5-25%, così come l’urbanizzazione in probabile accelerazione, causando un forte aumento dei prezzi alimentari e un possibile aumento della loro volatilità a causa e di fenomeni climatici e di maggiore speculazione finanziaria». Soluzioni? L’offerta, secondo l’economista, potrebbe però aumentare grazie al progresso tecnologico che incentiverebbe la produttività (gli OGM quale possibile risposta, soprattutto grazie alla nuova frontiere dell’applicazione delle biotecnologie in campo agricolo, che si basano sulla selezione dei marcatori “buoni” di ogni individuo della stessa specie). Bisognerebbe però abolire l’«osceno» protezionismo agricolo in vigore in Europa e negli Stati Uniti, una misura che apporterebbe qualche vantaggio soprattutto all’economia africana. Tuttavia, si chiede Boltho, ha senso continuare a consumare come abbiamo fatto sino ad ora? Al di là di un cambiamento negli stili di consumo alimentare in direzione di una maggiore sostenibilità, cosa non impossibile visto i mutamenti degli ultimi decenni, secondo Boltho «per ottenere risultati significativi si dovrà agire con l’arma fiscale, penalizzando certi consumi a favore di altri».

A cura di Fabrizio Gomarasca