Concorrenza ed eguaglianza
Una concorrenza diffusa favorisce i consumi e lo sviluppo economico nel suo complesso e produce una maggiore eguaglianza ed equità sociale. Peccato che, nel nostro Paese, questo assioma ampiamente condiviso, non riesca a tradursi in realtà.
Eppure, in questi ultimi due anni di Governo Prodi, sembrava ce la potessimo fare. Sembrava che le due anime dell’esecutivo avessero individuato un compromesso intelligente. La sinistra radicale, che rappresenta (o, meglio, pensa di rappresentare) gli strati più deboli della società, e una parte del centro-sinistra, quella sinceramente favorevole alle riforme e alla liberalizzazione dell’economia italiana, sembravano aver trovato il modo di effettuare uno scambio. La sinistra radicale avrebbe ottenuto più redistribuzione dei redditi, per aiutare quell’ampia fascia di famiglie italiane che è in difficoltà, e in cambio avrebbe avvallato le liberalizzazioni volute da rappresentanti del centro-sinistra, liberalizzazioni che avrebbero aiutato anche chi è in difficoltà, seppure in modo indiretto. Purtroppo però questo scambio non è avvenuto. Di redistribuzione se n’è fatta poca. È venuta meno quella alleanza “più redistribuzione, più concorrenza” perché non si è riusciti a realizzarla. E il compromesso all’interno della maggioranza è saltato. Questa è decisamente una cattiva notizia per l’Italia, perché introduce una domanda che rischia di restare senza risposta: dove si troverà una maggioranza politica che abbia la forza di fare ciò di cui c’è bisogno? A me non è chiaro, mentre mi sono chiarissime le cause del permanere della situazione di stagnazione dei consumi e della difficoltà dell’Italia nel fare passi avanti in direzione di una maggiore concorrenza.
Le famiglie che hanno per capofamiglia un lavoratore dipendente, nel decennio fra il 1995 e il 2006 hanno perso mediamente mezzo punto percentuale di potere d’acquisto. Risulta evidente dall’Indagine sui bilanci familiari nel 2006 appena pubblicata dalla Banca d’Italia (Redditi disponibili delle famiglie per età e professione). Le famiglie con capofamiglia impiegato hanno visto il loro reddito disponibile ridursi dell’1,2% in dieci anni e quelle con capofamiglia operaio dell’1,6%. Mentre è aumentato il reddito disponibile delle famiglie dei dirigenti (+9,1%), degli indipendenti (+25,9%) e dei lavoratori autonomi in particolare (+41,9%). Se è pur vero che la crescita dell’economia italiana è stata contenuta in questi anni, è pur sempre stata di circa l’1% l’anno. Quindi, man mano che l’economia cresceva, operai e impiegati hanno perso potere d’acquisto. È evidente che in questa situazione i consumi non crescono.
Nei dati va ricercata anche la spiegazione di come mai in Italia sia così difficile far fare passi avanti nella concorrenza o, più specificatamente, di come mai il tentativo che si è fatto in questo biennio di trovare un’alleanza pro-concorrenza nella sinistra italiana sia fallito, portando alla caduta del Governo Prodi.
Un primo grafico da avere sempre ben presente è quello della distribuzione del reddito nel nostro Paese (Distribuzione del reddito), elevato soltanto per una fetta molto ridotta della popolazione. I consumi, comunque, sono bassi non soltanto perché i redditi da lavoro dipendente non crescono, ma anche perché abbiamo uno Stato che spende molto – è fra quelli che più spende in Europa – ma in modo inefficiente, nel senso che non aiuta chi veramente ne ha bisogno. Lo evidenzia uno studio Eurostat del 2004 (Un welfare costoso, ma che non protegge dal rischio di povertà), che analizzava la variazione della percentuale di famiglie a rischio povertà prima e dopo i trasferimenti sociali di 11 paesi europei.
Svezia e Finlandia sono Paesi molto efficienti, hanno un numero relativamente alto di famiglie a rischio di povertà, ma ne spostano moltissime fuori da quest’area a rischio. La Svezia ne sposta 19 su 30, la Finlandia 17 e così via. L’Italia si posizione fra gli stati con il più basso numero di famiglie a rischio povertà: ne ha solo 22 su 100, poche rispetto, ad esempio, alle 32 su 100 della Danimarca. E questo perché nel nostro Paese, come in generale nel Sud dell’Europa, funzionano meglio i trasferimenti all’interno delle famiglie: in altre parole, nel caso di un evento esterno negativo che metta a rischio le entrate economiche di una famiglia, qualcuno della famiglia allargata, un parente che dia una mano si trova sempre. Lo Stato sociale italiano, invece, non riesce ad assolvere il compito per cui è stato concepito: di quelle 22 famiglie a rischio povertà, ne aiuta appena tre, contro le 21 salvate da quello danese.
Quindi il nostro è uno Stato che spende molto ma in modo poco efficiente. Questo non è sorprendente perché la nostra spesa sociale viene destinata quasi totalmente al pagamento delle pensioni, che non vanno soltanto a chi ne ha più bisogno, bensì a tutti. Guardando la composizione della nostra spesa sociale (Un welfare che paga solo pensioni), le cifre relative all’Italia rispetto alla media europea - che tra l’altro è distorta dal fatto che nella media europea c’è anche l’Italia – dicono che per i sussidi di disoccupazione noi spendiamo il 2% del totale della spesa sociale, contro una media europea che è vicina al 7%.
Se non si comincia a dare delle reti di protezione efficaci, poi evidentemente riformare il mercato del lavoro diventa difficile. È una spesa sociale, la nostra, che aiuta pochissimo i giovani. Per ogni euro versato a una famiglia giovane, il welfare italiano ne destina infatti 3,5 a una di anziani (Un welfare che non aiuta i giovani). E forse questo spiega come mai ci sono così pochi bambini in Italia.
Probabilmente non c’è bisogno d’essere virtuosi come gli scandinavi, che destinano un euro alla famiglia giovane e 80 centesimi a quella anziana. Anche in Francia, in Germania, nell’Europa continentale, lo squilibrio è a favore degli anziani, ma si tratta di uno squilibrio ridotto della metà rispetto a quello dell’Italia.
E per di più le cose, nel nostro Paese, sono andate peggiorando nel tempo. Trent’anni fa, nel 1977, (Un welfare che aiuta sempre meno i giovani) il rischio che la famiglia con un giovane capofamiglia - con meno di 30 anni - cadesse nel 20% più povero, era il 17%. Adesso questo rischio è aumentato di 10 punti, quindi le famiglie con un capofamiglia giovane sono molto più a rischio di cadere nella parte più debole della fascia di reddito, mentre le famiglie con un capofamiglia più anziano - sopra i 65 anni - hanno molto migliorato: per loro il rischio è sceso dal 38 al 18%.
Un’altra scelta difforme rispetto al resto d’Europa è quella di destinare ai sussidi di disoccupazione appena il 2% dei fondi del welfare, contro una media europea vicina al 7%. Ed è evidente che in mancanza di paracaduti sociali, riformare il mercato del lavoro diventa difficile.
Vale la pena di affrontare, seppur brevemente, anche la questione dei salari, che, sempre da uno studio Eurostat (questa volta del 2002), risultano più bassi in Italia rispetto alla media europea (Retribuzione media oraria). Fatta 100 la retribuzione media oraria nel Regno Unito (pari a 15,53 euro), a parità di potere d’acquisto, quella francese o tedesca era di 93, mentre quella italiana soltanto di 71. Da cosa dipende un divario così eclatante, quasi del 30%? Sicuramente dalla minor produttività e dalla maggiore rigidità del mercato del lavoro. I lavoratori che prendono salari bassi sono in un mercato del lavoro che li protegge moltissimo. In Italia questa rigidità funge, in un certo qual modo, da assicurazione contro la disoccupazione e questa protezione ha un suo prezzo, la si vede nel minor salario.
Come ha un suo prezzo, e rilevante, la mancanza di concorrenza in diversi settori dell’economia. Lo esemplifica un recente studio di Mediobanca, sulla redditività di un campione significativo di imprese ossia di 2007 società (Due Italie: redditività nell’industria e nei servizi).
Le imprese manifatturiere, siano esse a proprietà italiana (che se la cavano un po’ meno bene) o a controllo estero (più dinamiche), mostrano una redditività positiva, ma nettamente più vicina allo zero rispetto a quella delle imprese del settore dei servizi, soprattutto dell’energia. Rendimenti molto più elevati che tradiscono il fatto che, nel terziario, c’è una componente forte di rendita.
* Sintesi dell’intervento di Francesco Giavazzi al convegno “Concorrenza come motore della crescita” - Milano, 30 gennaio 2008.
Francesco Giavazzi è professore di Economia politica all’Università Bocconi di Milano