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Lavori che muoiono e nascono con rivoluzione digitale

l'opinione di

La rivoluzione digitale ridefinirà radicalmente la domanda e l’offerta di lavoro. Le previsioni indicano però che il saldo tra posti perduti e generati dovrebbe essere positivo. A patto di avere una visione di sistema, che in Italia per ora manca.

Il futuro? Simbiosi uomo-macchina

Dopo anni di diffusione digitale in cui sono radicalmente cambiate abitudini personali e strutture di interi settori e mercati, ecco che oggi si manifesta la conseguenza primaria di tutto ciò: la necessità di formare e disporre di competenze professionali adatte per vivere e lavorare in un contesto sempre più digitalizzato.

Interessante sul tema un recente studio – intitolato “Future of job” – del World Economic Forum, che periodicamente aggiorna l’analisi del rapporto tra sviluppo delle figure professionali e diffusione tecnologica. Attraverso 313 risposte uniche, il Wef ha indagato un ampio spettro di settori di industria che occupano circa 15 milioni di persone, chiedendo soprattutto ai responsabili delle risorse umane di paesi sviluppati ed emergenti (per un totale che rappresenta circa il 70% del Pil mondiale) quali siano le principali trasformazioni in atto nel settore di appartenenza, il cambiamento delle funzioni e delle relative competenze necessario da qui al 2022 e le priorità definite in termini di formazione.

Per il periodo 2018-2022 sono quattro gli ambiti tecnologici che si prevede abbiano impatti diretti sui profili professionali: sviluppo di servizi per tecnologie mobile, intelligenza artificiale, analisi big data e tecnologia cloud. Interessante notare il ruolo centrale di un digitale “strutturale”, con reti sempre più veloci e intelligenti, piattaforme di sviluppo software e sistemi con elevatissime capacità di calcolo tutti fruibili “pay per use”.

Circa il 50% delle aziende prevede una riduzione della forza lavoro full time a partire dal 2022 a seguito dell’automazione (con robotica e software di intelligenza artificiale tra le voci di spicco). Tuttavia, ed è il grande tema emergente, il 38% estenderà la propria forza lavoro a nuove funzioni integrate con tecnologie di automazione. Nel 2018, il 71% del totale delle ore di lavoro coperte dalle dodici industrie prese a riferimento, erano gestite da persone fisiche, rispetto a un 29% a carico di sistemi automatici. La fotografia cambia però radicalmente per il 2022: si prevede infatti che il 58% sarà assolto da persone e ben il 42% da macchine, mentre in termini di totale ore lavorate, comprendendo quindi anche le nuove funzioni generate, i sistemi intelligenti guidati da algoritmi, gestiranno lavori addirittura per il 57%.

Il ribaltamento, apparentemente preoccupante, va in realtà letto alla luce di stime che indicano come nuovi ruoli verranno generati dalla simbiosi uomo-macchina e supereranno il numero dei posti eliminati: per il 2022, è prevista una crescita delle professioni emergenti dal 16 attuale al 27%, con un declino nelle funzioni tradizionali dall’attuale 31 al 21%. Rapportando questi valori a tutte le industrie a livello globale, il Wef stima da qui al 2022 che circa 75 milioni di posti di lavoro saranno persi, mentre 133 milioni ne verranno creati come nuovi o di radicale riproposizione. Un grande movimento tellurico quindi, alimentato anche dalla crescita della classe media nelle economie emergenti e dal cambiamento demografico/generazionale in atto.

Ma non tutto è così lineare: c’è un indubbio problema sociale, complesso da risolvere, legato all’eliminazione di profili su fasce di lavori elementari facilmente automatizzabili e di difficile riconversione.

Un recente studio Mc Kinsey, commentato su lavoce.info da Francesco Daveri, ha analizzato in 46 paesi gli effetti dell’automazione su professioni che coprono l’80% del totale della forza lavoro. Ben il 60% delle professioni sarebbe “parzialmente automatizzabile”. In più, non tutti i paesi saranno in grado di attuare un processo di sostituzione di competenze efficace e indolore: la competizione sui mercati digitali, infatti, premia soprattutto aziende, settori e sistemi-paese in grado di accettare pienamente il processo di cambiamento tecnologico (intervenendo su sistema di competenze, modelli organizzativi, innovazione dei modelli competitivi tradizionali, politiche economiche per esempio). Il rischio è che non possa attuarsi, o che si attui in tempi molto lunghi, quel processo di “distruzione creativa” tipico delle rivoluzioni tecnologiche precedenti.

Tuttavia, la battaglia per il futuro del lavoro si gioca su un terreno più ampio: se per le attività elementari è ipotizzabile, anche in breve, una radicale sostituzione da parte di sistemi digitali, è nella globalità delle figure professionali, comprese quelle a più elevato livello di competenza, che deve essere giocata la partita della riproposizione professionale. Non dimenticando, come sostiene anche McKinsey, che pur con la diffusione del digitale è più probabile che nei prossimi anni il problema sarà la carenza di forza lavoro piuttosto che un eccesso di disponibilità. Non va infatti sottovalutato il trend, soprattutto nelle economie avanzate, legato all’invecchiamento della popolazione e al rallentamento delle nascite. Già entro il 2020, dice lo studio, se gli Stati Uniti vorranno mantenere l’attuale Pil pro capite, avranno un deficit stimato di circa 15 milioni di lavoratori. Ed è proprio un’automazione “intelligente” che potrebbe supportare politiche di sviluppo economico difficilmente sostenibili solo con la forza lavoro umana.

Nuovi profili e una visione sistemica

Quali sono, allora, le nuove competenze ricercate secondo le previsioni del Wef per i prossimi quattro anni? Tecnologiche, da un lato, e di trasformazione organizzativa e culturale dall’altro. In ambito tecnologico, aumenterà quindi la domanda di data analyst, sviluppatori di app, social media specialist, supervisor di robot, specialisti nella gestione di interfacce uomo-macchina, smart city designer, specialisti di sistemi di intelligenza artificiale, esperti di security. Nel segmento dei cosiddetti “soft/human skills”, lo spettro è molto ampio: sales, marketing e customer service professional con spiccate qualità di ingaggio digitale e di conoscenza dei clienti e delle loro abitudini di navigazione attraverso l’analisi dei dati; nuovi formatori che supportino le persone in azienda nel loro change management in contesti organizzativi sempre più “liquidi”; specialisti di processi collaborativi e di team working, designer dell’interazione uomo-macchina e della user experience digitale, figure con pensiero analitico e critico, creatività, persuasione, resilienza e capacità di problem solving complessi. Insomma, una domanda emergente di competenze “umanistiche”: il digitale, infatti, non può rischiare un approccio “meccanicistico” che lo porterebbe a utilizzi improduttivi o addirittura ad atteggiamenti di rifiuto, se non calato nel corretto contesto culturale.

Ma perché tutto ciò diventi valore competitivo, e soprattutto strutturale, deve potersi calare in una visione sistemica e strategica a livello di paese, con un impegno concreto e continuo da parte della politica. Una visione del nuovo lavoro deve accompagnarsi a una visione strategica dell’Italia nel mondo e dei futuri rapporti economici e geopolitici. Mai come nel caso delle tecnologie digitali, un divario di competenze potrebbe penalizzare la crescita economica e, soprattutto, la qualità della vita delle persone.

Tratto dal sito lavoce.info