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Manuela Soressi L’opinione di Manuela Soressi

L’elogio dell’imperfezione sta conquistando il mondo

Da torte sbagliate ai prodotti “brutti ma buoni”, cresce l’orgoglio di non essere perfetti. Un nuovo sguardo inclusivo e realistico che cambia il modo in cui consumiamo, cuciniamo e comunichiamo. Anche per GDO e aziende, è tempo di mostrarsi più umani

Economia e consumi Largo consumo

Imperfetti si nasce. E spesso anche si diventa. Ma oggi non è più un problema. In un mondo iper-competitivo, dove per ogni cosa c’è una giuria (spesso fatta di inesperti) pronta a dare i voti, esiste una “via d’uscita” sicura ed efficace per togliersi dalla battaglia della competizione a ogni costo: è l’elogio dell’imperfezione, appunto. Sostenibile e tangibile. Inclusivo e rassicurante. E anche ribelle nel rivendicare il diritto all’errore e all’imprecisione, scardinando le regole del “bello e ben fatto” su cui si fonda tanta storia, tanta realtà e tanta narrazione, in particolare del made in Italy.

Anche per questo l’elogio dell’imperfezione sta conquistando il mondo: sui social spopolano le ricette venute male e le “torte più malriuscite della storia”, in una gara a chi le fa peggio e a chi è più sarcastico o cinico nel commentarle. Allo stesso modo nel fuoricasa, dopo lo storico Negroni sbagliato, ora è il momento di tante ricette presentate come “sbagliate”, che finiscono con orgoglio nei menu di tanti ristoranti, pizzerie e truck di street food (come la Margherita, il crocché o il gaufre), e che incuriosiscono sommando l’effetto sorpresa al tocco magico della serendipity. Dunque, in una società sempre più informale un numero crescente di persone si sente libera non solo di accettare ma anche di celebrare le proprie imperfezioni.

Il mondo del largo consumo si è accorto da tempo di questo fenomeno. Lo conferma il fiorire di prodotti che si vantano di essere imperfetti, collocandosi così in modo empatico con un consumatore che tale (evidentemente) si sente. O che comunque ha messo l’imperfezione tra i pregi anziché tra i difetti.

Ad aprire la strada all’imperfezione nel mass market sono stati i prodotti ortofrutticoli “brutti ma buoni”, quelli che, solo a causa di difetti estetici, sono stati per decenni tenuti al di fuori dai circuiti commerciali. Portarli nella GDO e dar loro piena dignità, evidenziandone le caratteristiche e il valore, è stato, dunque, un atto di coraggio e di consapevolezza, che si è inserito nella ricerca di una maggiore sostenibilità della filiera agroalimentare e che ha fatto leva sull’apertura dei consumatori a fare scelte più “noumeniche” e meno “fenomeniche”. Un’evoluzione di quello che si è fatto per anni negli spacci delle aziende, dove si dava una seconda opportunità ai prodotti di seconda scelta o di scarto, spesso tali solo per etichette sbagliate, stock sovradimensionati o confezioni difettate. Ed è significativo che oggi questi prodotti si trovino anche in alcune catene della GDO, sia food che non food (da Ikea a Maison du Monde), evidenziati e valorizzati come autentiche occasioni per l’ottimo rapporto qualità/prezzo.

Nel largo consumo, dunque, la valorizzazione dell’imperfezione è partita dall’area del prodotto ma ora è pronta ad arrivare anche in quella del consumo.

Come? “Adottando” le abitudini “perfettamente imperfette” che le persone applicano nella loro vita quotidiana. In effetti quanti di noi riescono a rispettare le buone intenzioni di mangiare sano (solo il 7% degli italiani consuma le fatidiche cinque porzioni di ortofrutta giornaliere), a evitare snack e alcolici, a cucinare i pasti da zero senza ricorrere a quelli già pronti, e a non sforare il budget di spesa previsto per il cibo? Se si tratta di comportamenti ampiamente diffusi perché allora nasconderli o vergognarsene, si chiedono sempre più persone? La società di ricerche Mintel ha voluto misurare quest’atteggiamento di “rule ribellion”, che ha indicato come uno dei trend chiave del 2025, scoprendo che per il 73% degli statunitensi non eccellere è più che accettabile e che per il 64% dei giapponesi cucinare a casa è troppo complicato. E ancora che il 48% dei sud coreani si nutre in modo salutistico solo occasionalmente e che il 33% dei thailandesi non si sente in colpa se consuma alimenti o bevande non salutari. Per finire con il 34% dei tedeschi che si gratifica ogni giorno con alimenti “indulgence”, senza pentimenti.

Ecco allora che si apre uno spazio nuovo per le aziende del food & beverage, che possono partire dal dato di realtà di come effettivamente i consumatori si approcciano a cibi e bevande per relazionarsi con loro in modo più “empatico”. L’interesse è alto, come dimostra la popolarità sui social di alcuni progetti, come Ugly Cakes, con i suoi dolci volutamente imperfetti e volutamente ironici. Ora la palla passa alle aziende e alla loro capacità di sviluppare innovazioni (di prodotto, di comunicazione, di concept, di packaging) effettivamente vicine ai comportamenti reali dei consumatori.

“Le aziende devono mostrare il loro lato umano, fatto di empatia, semplicità e imperfezione" scrive Bryan Kramer, autore del best seller “Human to human: H2H”.

Rompendo così gli schemi fissi e le regole finora indiscutibili che hanno guidato il rapporto tra brand e consumatori. In nome della “rule ribellion”.

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