Assemblea Federalimentare 1 / Le richieste per tornare a crescere
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No all’aumento del 2% delle aliquote Iva e alla food tax. Sì al potenziamento dei fondi promozionali per l’agro-alimentare dell’Ice e alla defiscalizzazione sia degli investimenti promozionali all’export sia delle operazioni d’aggregazione delle imprese. Queste in sintesi le richieste avanzate al Governo da Filippo Ferrua Magliani, presidente di Federalimentare, nel suo intervento all’assemblea pubblica dell’associazione confindustriale, tenutasi il 7 maggio scorso nell’ambito del Cibus di Parma e incentrata sul tema: «Tornare a crescere. Rilanciare i consumi, sostenere l’internazionalizzazione: le ricette dell’industria alimentare».
Più Iva meno consumi
«La debolezza principale del sistema italiano», ha detto Ferrua, «rimane la capacità d’acquisto delle famiglie italiane. Debolezza tradottasi, non a caso, in un calo dei consumi di quasi l’8% a volume. Il previsto ulteriore aumento del 2% delle aliquote Iva sia sui prodotti oggi soggetti a una tassazione del 10%, che corrispondono a consumi per 80 miliardi di euro, sia su quelli con aliquota Iva del 21%, cui sono riconducibili altri 64 miliardi di consumi, avrebbe un duplice risultato negativo. Si tradurrebbe in un ulteriore contrazione della domanda interna da parte dei cittadini. E amplierebbe il divario che già oggi separa le imprese alimentari italiane da quelle del resto d’Europa. L’aliquota Iva ordinaria sostenuta dalle nostre aziende sugli acquisti di beni e servizi, infatti, è già oggi fra le più alte nel vecchio continente».
I perché del no alla food tax
È sulla ventilata tassazione di scopo sui cosiddetti junk food (cibi poco sani), però, che i toni di Ferrua si sono fatti più vibranti.
«L’ipotesi di una food tax», ha asserito il presidente di Federalimentare, «è da ritenersi ingiusta, per non dire odiosa, ingiustificata e pericolosa. Ingiusta, perché andrebbe a colpire soprattutto le famiglie più deboli, quelle per le quali la spesa alimentare rappresenta ancora un parte cospicua del budget. Ingiustificata, perché la quasi totalità dei nutrizionisti concorda sul fatto che non esistano cibi buoni o cattivi di per sé, ma solo un sano e corretto stile di vita, in cui l’apporto calorico è bilanciato dall’attività fisica. Pericolosa, perché creerebbe un danno d’immagine, in primis, per il made in Italy. Proprio il meglio delle produzioni italiane soffrirebbe di una specie di marchio d’infamia. Inasprirebbe inoltre ulteriormente la contrazione dei consumi alimentari e comprometterebbe lo sforzo quasi decennale delle nostre aziende d’andare incontro alle esigenze nutrizionali degli italiani».
Ferrua non ha esitato a evidenziare come una vasta letteratura scientifica testimoni l’inefficacia di politiche sanitarie volte a penalizzare alcuni consumi alimentari ritenuti dannosi. In loro presenza i consumatori normalmente reagiscono sostituendo i prodotti gravati da maggiore tassazione con analoghi alimenti più economici e di minore qualità, peggiorando ulteriormente la qualità della loro dieta.
«C’è un’altra strada da seguire», ha proseguito Ferrua. «Quella dell’educazione alimentare, che sarebbe opportuno divenisse materia scolastica. Nel frattempo come Federalimentare stiamo portando avanti una serie d’impegni volontari, in attuazione del Programma quadro concordato con il ministero della Salute, attraverso sei aree d’intervento del valore complessivo di circa 1 miliardo di euro: riformulazione e porzionamento dei prodotti, etichettatura nutrizionale, autodisciplina nel marketing e commerciale degli alimenti, educazione alimentare nelle scuole, prevenzione dei comportamenti a rischio e promozione dell’attività fisica».
Le food tax, insomma, determinerebbe risultati opposti rispetto a quelli auspicati e genererebbe una distorsione della concorrenza e un rinforzo delle spinte recessive accompagnate da gravi riflessi sui livelli occupazionali delle imprese alimentari coinvolte. Conseguenze assolutamente da evitare considerato che il 2012 sarà il quinto anno consecutivo di una crisi che, in Italia, si salda al lungo periodo precedente di crescita insoddisfacente.
Produzione ancora in calo…
«La produzione dell’industria alimentare italiana», ha ricordato Ferrua, «nel 2011 ha chiuso in calo di quasi l’1,8%, un evento che si è verificato soltanto altre due volte dal dopoguerra a oggi. E il trend degli ultimi mesi dello scorso anno, che ha manifestato un progressivo peggioramento confermato dai primi dati d’avvio del 2012, ci fa prevedere che chiuderemo l’anno con un ulteriore calo della produzione nell’ordine di 1-1,5 punti percentuali».
… ma export in crescita
Al calo produttivo fa da contraltare la crescita a doppia cifra dell’export. S’è attestata per il secondo anno consecutivo su un +10%, raggiungendo la cifra complessiva di 23 miliardi di euro e mostrando una particolare dinamica in mercati emergenti come Russia (+25,3), Cina, (+26,2%), Brasile (+28,1%) e Sud Africa (+28,4%).
«È tuttavia difficile», ha anticipato Ferrua, «che quest’anno si riesca a uguagliare il risultato dell’ultimo biennio. Ciò a causa della frenata conseguente al raffreddamento dei nostri mercati di riferimento nell’area Ue».
Tre soluzioni per tornare a crescere in italia
Proprio perché le maggiori opportunità di crescita per l’industria alimentare italiana verranno dall’export in paesi spesso lontani, è evidente che sono cruciali interventi di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, in particolare delle Pmi. Di qui la richiesta da parte di Federalimentare di un potenziamento della quota di fondi promozionali del nuovo Ice destinati al settore alimentare. Quota che Ferrua propone sia portata dal 7 al 12-15%.
L’associazione confindustriale chiede anche l’incentivazione degli investimenti promozionali. «Prevedere la piena deducibilità dei costi sostenuti per le attività di promozione e commercializzazione di prodotti italiani all’estero», afferma il presidente di Federalimentare, «contribuirebbe a rafforzare la spinta all’internazionalizzazione». E poiché le dimensioni aziendali sono sempre più cruciali per poter competere su mercati globalizzati, l’associazione auspica misure atte a favorire l’accorpamento delle imprese. La soluzione individuata è un innalzamento del tetto massimo per la defiscalizzazione delle operazioni risultanti da attività di fusione e acquisizione.
Semplificazione normativa in Europa
«L’industria alimentare italiana ed europea», ha asserito per parte sua Jesús Serafín Pérez Diaz, presidente di Food Drink Europe, «ha bisogno di una normativa Ue più semplice, univoca e che non sia d’intralcio all’operatività delle imprese, pur garantendo i consumatori. Le prospettive economiche mondiali hanno nuovamente assunto tinte fosche e hanno creato un clima d’incertezza. Le previsioni al ribasso del Pil sia nei paesi sviluppati sia in quelli emergenti ci dicono che stiamo entrano in una nuova fase di crisi finanziaria. Fase dalla quale potremo uscire soltanto se ci sarà la volontà politica di farlo e se gli imprenditori del settore alimentare avranno fiducia in se stessi. La piccola Europa, con i suoi 500 milioni d’abitanti, da 10 anni continua a essere la prima economia mondiale, il primo esportatore e il primo importatore del mondo e il primo attore nel commercio internazionale». In effetti l’industria alimentare europea, con un fatturato di poco meno di 1 trillione di euro (956,2 miliardi per l’esattezza), è il principale comparto manifatturiero del continente. Quello che compra e trasforma più del 70% delle produzioni agricole, dell’allevamento e della pesca europee, che esporta per 65,3 miliardi di euro e che importa per 55,5 miliardi di euro, contribuendo a un saldo attivo della bilancia commerciale di 9,8 miliardi di euro, e che dà lavoro a 4,1 milioni di persone suddivise in 274 mila imprese, delle quali l’89% Pmi.
* presidente di Federalimentare - Sintesi tratta dal suo intervento all’assemblea pubblica di Federalimentare