Non basta la fiscalità di vantaggio per il sud
l'opinione di
Liberalizzazioni, libertà di impresa, fiscalità di vantaggio per investire al Sud: sono le misure individuate dal governo per far ripartire la crescita. Sono le idee giuste? Il Pil italiano è oggi frenato da consumi stagnanti. Perché sono fermi i salari reali e perché disoccupazione e cassa integrazione non scendono. Le ricette proposte non servono a risolvere i problemi del mercato del lavoro. Meglio sarebbe destinare la fiscalità di vantaggio alle piccole imprese che creano posti di lavoro a tempo indeterminato.
Bene, si ricomincia a parlare di come incoraggiare la crescita in pratica. Lo ha fatto Silvio Berlusconi con l’annuncio di un ritorno alle liberalizzazioni a partire dalla riforma dell’articolo 41 della Costituzione. La crescita è anche tornata al centro dell’attenzione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti che ha parlato di “fiscalità di vantaggio” (il termine burocratico per “tagliare le tasse”) per chi fa investimenti nel Sud. In ogni caso, riaffermando il principio dell’equilibrio di bilancio che rimane e - speriamo - rimarrà la cornice della politica economica italiana nei prossimi anni.
Liberalizzazioni, libertà di impresa, fiscalità di vantaggio per investire al Sud: sono buone o cattive idee per far crescere l’economia italiana? La risposta dipende da quali si ritiene che siano i veri vincoli alla crescita del nostro paese all’inizio del 2011.
I problemi da risolvere
L’1% di crescita di cui è capace l’economia italiana è una media tra una crescita molto rapida dell’export (a sua volta il risultato della ottima performance di alcune, ma certo non tutte le aziende italiane esportatrici) e anche degli investimenti dopo il crollo durante la crisi, e l’andamento quasi stagnante dei consumi. Insomma, semplificando, a una crescita più rapida del Pil oggi manca il contributo dei consumi.
E la fiacca dinamica dei consumi dipende dal fatto che, finita la recessione economica, cioè dal terzo trimestre 2009 in poi, è cominciata la recessione sociale. I consumi stagnano perché stagnano i salari reali e perché non scende la disoccupazione né la Cig complessiva. I salari reali stagnano perché la dinamica dei salari nominali si è appiattita negli ultimi mesi e perché l’inflazione è ripartita. A sua volta, l’andamento dei salari nominali risente negativamente dell’aumento della disoccupazione (salita dal 6% di metà 2007 al 8,6% di dicembre 2010) che certamente indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori in azienda. Il potere d’acquisto degli stipendi è poi ulteriormente indebolito dal ritorno dell’inflazione che è gradualmente cresciuta fino a sfiorare, nel dicembre 2010, il 2% su base annua per i prezzi al consumo – dato che riflette solo in parte il +4,5% dei prezzi alla produzione e gli aumenti a due e tre cifre dei prezzi delle materie prime. Infine, i consumi soffrono dell’andamento del mercato del lavoro. La fine della recessione economica ha portato con sé un debole incremento dell’occupazione perché le aziende che possono permetterselo stanno prima riassorbendo gli occupati in cassa integrazione, dunque senza creare nuovi posti di lavoro. E la Cig complessiva rimane alta perché alimentata dalla Cig straordinaria e da quella in deroga. In più, guardando dentro alla tipologia di posti di lavoro creati dalle aziende, si vede che continua la tendenza degli anni pre-crisi: i lavori a tempo determinato crescono del 2,9% (terzo trimestre 2010 sullo stesso trimestre 2009), mentre quelli a tempo indeterminato diminuiscono dell’1,6%.
Sempre nel terzo trimestre 2010, ha cominciato a diminuire il numero dei disoccupati, al Nord più che al Sud e nel Centro, ma il tasso di inattività - la percentuale di persone in età lavorativa che non è né occupata né attivamente alla ricerca di un posto di lavoro – è invece cresciuto. E l’inattività aumenta egualmente sia al Nord che al Sud, dove si registra un +2% rispetto al terzo trimestre 2009, mentre nel Centro Italia l’aumento è più contenuto (“solo” +1,3%).
Insomma, il combinato disposto della recessione economica del 2009 (documentata dalla riduzione del reddito delle famiglie registrato dall’Istat) e della recessione sociale del 2010 produce conseguenze cumulate: la riduzione dei consumi prima e poi anche della propensione a consumare. Ecco perché la voce “consumi” manca all’appello nella lista dei motori della crescita 2011.
Le ricette proposte dal governo
Le ricette proposte dal governo non funzionano per risolvere i problemi del mercato del lavoro che sono alla base dell’andamento fiacco dei consumi.
Il ritorno delle liberalizzazioni (e i potenziali effetti taumaturgici della riforma dell’articolo 41 della Costituzione) serve a far nascere nuove e, dunque, inizialmente piccole imprese. Il che è una buona notizia. Ma di piccole imprese ce ne sono già tante: 4 milioni e 300 mila circa, di cui il 58 per cento è di tipo individuale e il 95 per cento ha meno di dieci dipendenti. Ogni anno nascono già 300mila nuove imprese, un + 7 per cento rispetto a quelle esistenti. Ma ne muoiono altrettante. La mortalità è particolarmente alta nel commercio e nelle costruzioni, ma anche nell’industria in senso stretto, tanto che il saldo netto è negativo da almeno cinque anni (2003-2008: gli ultimi anni per cui abbiamo dati confrontabili). I dati dunque dicono che il problema principale dell’Italia non è quello di far nascere le imprese, ma di farle sopravvivere e diventare grandi. Le liberalizzazioni da sole non aiutano a risolvere questo problema che è il principale quando si parla di demografia d’impresa. Il vero beneficio delle liberalizzazioni in termini di crescita economica deriva dal saldo netto tra imprese che aprono e imprese che chiudono. Se è negativo, le liberalizzazioni sono una misura equa (favorire la libertà di entrata e di uscita, cioè l’uguaglianza di opportunità, è un principio sacrosanto di democrazia economica) ma portano poca crescita economica aggiuntiva.
La fiscalità di vantaggio per il Sud indurrà le aziende del Nord Italia e magari le aziende straniere a investire di più nel Sud? A imprenditori come Sergio Marchionne importa poco degli incentivi fiscali, soprattutto se sono associati a vincoli nella conduzione dell’attività d’impresa. Già, perché a loro interessano più che altro le regole in fabbrica, quelle stabilite da accordi come quello di Pomigliano. Quindi la fiscalità di vantaggio finisce per essere una misura rivolta solo alle piccole imprese che, attirate dai benefici fiscali, potrebbero investire e creare posti di lavoro.
La domanda però è: quali posti di lavoro sarebbero creati? Presumibilmente gli unici che sono creati oggi in Italia con le attuali regole del mercato del lavoro, cioè quelli precari. Soprattutto in un contesto difficile come quello di molte regioni meridionali. Questa misura aiuta a risolvere il problema della fiacca dinamica dei consumi? No. L’accorciamento degli orizzonti di lavoro e di vita è alla base della fiacca dinamica dei consumi. Creare occupazione precaria in un mercato del lavoro dualistico non basta più a migliorare le prospettive di vita delle famiglie e i consumi continueranno a ristagnare.
Detassare gli utili a chi crea lavoro a tempo indeterminato
C’è un’altra possibilità su cui riflettere, quella di destinare la fiscalità di vantaggio - ad esempio, una riduzione o anche un azzeramento delle tasse sul reddito delle società per diciamo tre anni - alle piccole imprese che creino posti di lavoro a tempo indeterminato.
Una misura di questo tipo ha tre vantaggi principali:
- non sussidia la creazione di posti di lavoro fittizi, ma premia le piccole imprese che conseguono e fanno emergere utili positivi mentre creano posti di lavoro. Quindi è anche una misura anti-evasione;
- se funziona, genera assunzioni a tempo indeterminato, quindi lavoratori che hanno una più elevata propensione a consumare rispetto ai precari;
- fa crescere di dimensione le aziende per via interna senza indurre aggregazioni artificiali a cui le piccole imprese si sono spesso mostrate refrattarie.
Inoltre è uno schema per tutte le piccole, non solo per quelle che investono nel Sud: del resto i dati dicono che l’inattività è cresciuta ovunque, non solo nel Sud. E poi rispetto alla detassazione dei premi di produttività introdotti dal governo nella Finanziaria 2011, questo schema di fiscalità di vantaggio non fa piovere sul bagnato: crea nuovi posti di lavoro, anziché generare più alti salari per quelli che un lavoro ce l’hanno già.
Del resto, nell’ottobre 2009, lo diceva anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti: «La mobilità non è un valore, il posto fisso è la base per progetti di vita». Se ci crediamo, è ora di adottare politiche coerenti con questo obiettivo.
(Tratto dal sito www.lavoce.info)