Servizi, motore dello sviluppo
l'opinione di
Il settore dei servizi rappresenta ormai i due terzi dell’economia mondiale. Nei paesi ad alto reddito si sale fino al 70-80 per cento. Per di più, sono il settore che cresce di più: l’80 per cento della crescita mondiale negli ultimi vent’anni viene dai servizi.
Eppure, l’industria resta saldamente al primo posto nelle preoccupazioni di politici e commentatori in molti paesi, tra cui l’Italia. Il “caso Pomigliano” domina il dibattito sulla competitività dell’economia italiana.
Il pregiudizio antiservizi
Per molte persone l’industria è economia “vera”, i servizi no.
Perché resiste questa visione ottocentesca della economia? È rilevante chiederselo in questo particolare momento, in cui molti paesi, Italia compresa, cercano faticosamente di uscire dalla crisi?
Crediamo che la perdurante sottovalutazione dei servizi rispetto all’industria sia una conseguenza di diversi “falsi miti” e che quest’errore costi particolarmente caro all’Italia, dove il settore è drammaticamente sottosviluppato rispetto ai paesi con reddito simile al nostro.
Il fatto che il valore aggiunto dei servizi sia molto maggiore di quello dell’industria è ben noto, ma il mito della superiorità dell’industria resiste.
Una spiegazione che spesso viene addotta è che l’industria “trascinerebbe” i servizi. Una fabbrica crea posti di lavoro nell’indotto e fa crescere i servizi attorno a sé. Vero. Ma è vero anche il contrario. I prodotti industriali vengono venduti alle industrie dei servizi che servono in gran parte consumatori italiani: i camion li comprano le imprese di trasporti, i computer le banche, i beni di consumo la distribuzione. Siccome tre quarti del reddito delle famiglie italiane viene dai servizi, perché è lì che lavorano tre quarti degli italiani, tre quarti delle vendite dei beni di consumo prodotti dall’industria sono di fatto “pagati”dai servizi.
Una seconda spiegazione della presunta superiorità è che i servizi non esportano mentre l’industria sì, per cui un’industria competitiva fa crescere la “quota di mercato” di un paese nell’economia mondiale, assicurando così un vantaggio al paese esportatore. La passione per le esportazioni (spesso abbinata all’odio per le importazioni) è uno dei pregiudizi più vecchi e più tragici della storia economica, alla base di decisioni protezionistiche scellerate e che può allungare i tempi di questa crisi. L’economia non è un gioco a somma zero e un paese può crescere moltissimo senza “rubare” nessuna quota di mercato agli altri, in particolare sviluppando i servizi.
L’opportunità per l’Italia
Si potrebbe continuare a lungo nell’elencare i pregiudizi “anti-servizi” che affollano il dibattito economico: offrono posti di lavoro meno pagati (non è vero, pensate alle professioni), formano un’economia “di carta”, che la crisi ha spazzato via (non è vero, la finanza è solo una piccola parte del settore). E così via.
In Italia paghiamo caro questo pregiudizio. Abbiamo un settore dei servizi che impiega una percentuale bassissima della popolazione confrontata con quella degli altri paesi europei. Se il numero di italiani che lavorano nei servizi raggiungesse la media europea, avremmo da tre a quattro milioni di occupati in più. Il (relativo) maggior sviluppo dell’industria ce ne fa recuperare solo mezzo milione.
Ovviamente, il drammatico gap occupazionale da bassa partecipazione al mercato del lavoro ha molte cause, tra cui la bassa età pensionabile e la bassa partecipazione al lavoro delle donne. Il primo fattore viene difeso con argomenti validi soprattutto nell’industria (i lavori usuranti), mentre è abbastanza indifendibile nella maggioranza dei servizi. Un’analisi del secondo fattore mostra chiaramente l’opportunità che si perde in Italia. Se un numero maggiore di donne avesse un’occupazione nelle professioni, nel turismo, nelle assicurazioni, l’impatto sull’import/export sarebbe probabilmente neutrale (il turismo crea export, gli altri servizi un limitato import) e si genererebbero reddito e imposte con cui pagare quegli altri servizi (per esempio gli asili nido) che faciliterebbero l’inserimento femminile nel mondo del lavoro.
Regole giuste e fatte rispettare
Quali politiche dovremmo lanciare per sbloccare i servizi in Italia? Nel nostro libro “Regole” sosteniamo che il mancato sviluppo del settore dei servizi nel nostro paese è dovuto alla micidiale combinazione di:
- regole sbagliate che limitano la crescita delle imprese, favorendo il piccolo nella legislazione sul lavoro (vedi per esempio, la questione dell’articolo 18), nell’importanza data al ruolo del professionista come individuo più che come impresa, nelle limitazioni delle licenze e degli orari di apertura che favoriscono il commercio e le attività artigianali a conduzione familiare;
- regole non rispettate dalle imprese di un sommerso a livelli record nel mondo occidentale, che devono restare piccole per potere evadere tasse, oneri sociali e costi ambientali, facendo concorrenza sleale alle aziende in regola.
I due elementi si rafforzano a vicenda e concorrono a creare una struttura industriale dei servizi fatta da piccole imprese spesso poco produttive, con tassi di evasione fiscale e contributiva molto alti (20 per cento nei servizi contro 12 per cento nel manifatturiero, secondo un’indagine di Confindustria) e poco orientate alla crescita.
Da quest’analisi nascono le cinque proposte del libro, due delle quali puntano a ridefinire le regole nei servizi pubblici locali e nel turismo, per attrarre investimenti di grandi operatori attraverso la nazionalizzazione delle regole e delle concessioni nei servizi pubblici e la creazione di concessioni di grandi estensioni territoriali per lo sviluppo turistico. ¹
Con le altre tre proposte, orientate a una riforma dei settori della scuola (responsabilizzazione delle scuole sui risultati di test nazionali dei loro allievi, un ruolo più forte di controllo al ministero, e decentramento della gestione alle regioni), della giustizia civile (misurazione e responsabilizzazione sui tempi dei processi) e del servizio pubblico radiotelevisivo (struttura di governance della Rai orientata più alla qualità e meno alla par condicio) puntiamo invece a creare i presupposti di una società “vigile”, in grado di intervenire in modo attivo nella scrittura delle regole e nel favorirne il rispetto, soprattutto attraverso il meccanismo della sanzione sociale dei “furbi”.
(Tratto dal sito www.lavoce.info)
¹ Roger Abravanel e Luca D’Agnese, Regole, Garzanti, 2010