La crisi e il mercato a macchia di leopardo
Sotto i colpi della recessione, in Italia e nel resto dei paesi ricchi, si è smesso di parlare dell’importanza di recuperare competitività, produttività ed efficienza di fronte alla minaccia asiatica. Non si parla più cioè di quei temi che, almeno dal 2006, le aziende italiane avevano cominciato a prendere sul serio, rimboccandosi le maniche per affrontarli.
Accade ora invece un fenomeno strano: anche capi di Stato e primi ministri di paesi tradizionalmente conservatori dal punto di vista della politica economica, come Angela Merkel, hanno cominciato a criticare senza mezzi termini il cosiddetto “pensiero unico” liberista, cui viene ora attribuita la responsabilità di ognuna delle cattive notizie economiche che leggiamo tutti i giorni sui giornali. Dietro alle critiche al pensiero unico e ai riferimenti all’economia sociale di mercato, spirano i soliti venti di protezionismo, tipici di tutti i periodi in cui le economie rallentano il loro passo; irresistibili canti di sirene a cui governanti che mirano ad essere eletti o rieletti trovano difficile resistere. La signora Merkel ha le elezioni in ottobre e non fa eccezione alla regola.
Sparlare del mercato è particolarmente paradossale in Italia, dove di mercato se n’è visto ben poco nei cosiddetti anni della finanza senza freni. L’Italia, con il suo 50% di spesa pubblica sul Pil e le sue migliaia di leggi che mirano a regolamentare tutto e il contrario di tutto, ha semmai vissuto il mercato “a macchia di leopardo”. Libero mercato per pochi, monopolio per tanti.
Sul mercato del lavoro, le leggi Treu e Biagi hanno consentito l’emersione di lavori precari e temporanei che spesso esistevano già prima nell’economia sommersa, e hanno dunque liberalizzato il mercato di questo genere di lavori. Ma non hanno certo ridotto le garanzie, né instaurato la licenziabilità di coloro che hanno un lavoro a tempo indeterminato. Qualcuno ha sperimentato la flessibilità del mercato del lavoro, qualcun altro no.
Lo stesso vale per il mercato dei beni e servizi finali, dove abbiamo assistito al progressivo diffondersi e perfezionarsi della concorrenza nella grande distribuzione, mentre sempre nuove leggi e leggine venivano tirate fuori per sostenere e proteggere le piccole imprese, soprattutto quelle del Sud, in difficoltà di fronte alla concorrenza dei grandi e alle nuove sfide globali. E anche sui mercati finanziari è partita la concorrenza nel mercato bancario e assicurativo, ma la forbice tra ricavi e costi di chi offre i servizi si è allargata, a conferma che le liberalizzazioni sono state molto incomplete e hanno finito per conservare sempre nuovi ambiti di profittabilità, per la fervida fantasia degli oligopolisti.
I paesi ricchi - e il nostro paese anche più degli altri - si trovano dunque ad un bivio. Una possibilità è che prevalgano le sirene del protezionismo, regalandoci la sospensione dei negoziati del WTO e, sul fronte interno, dieci-cento-mille Alitalia e Casse del Mezzogiorno. Se sarà così, la recessione cambierà forma e l’andamento del Pil nel tempo - anziché disegnare una V come nelle recessioni degli ultimi venti anni - diventerà una U, cioè con punto di minimo più prolungato, o magari una L come in Giappone negli anni Novanta. Sarebbe la fine del benessere costruito con tanti sacrifici negli anni Cinquanta e Sessanta.
C’è, per fortuna, un’altra possibilità e cioè che l’intervento dello Stato necessario a ridare fiducia a famiglie e imprese toccate dalla crisi venga accoppiato ad una ripresa delle politiche di liberalizzazione. Se si vuole uscire bene dalla crisi, è proprio questa l’ora di abolire le leggi che proteggono le piccole imprese, a patto che rimangano piccole, salvo poi usare denaro pubblico in modo schizofrenico, offrendo incentivi alla crescita dimensionale delle aziende. È proprio questa l’ora di predisporre un contratto di lavoro unico per tutti i lavoratori che preveda un congruo periodo probatorio iniziale, la possibilità di licenziamento e sussidi di disoccupazione e altre forme di assistenza nella ricerca del lavoro per coloro che si trovino nella necessità di cercarne uno nuovo.
Ed infine, proprio ora che si sono messi da parte soldi pubblici per ricapitalizzarle, è un buon momento per continuare nelle liberalizzazioni del settore bancario e assicurativo. Perché l’assistenza offerta dallo Stato non si fermi nelle ampie tasche delle banche e ritorni in quelle dei loro clienti (e contribuenti che pagano le ricapitalizzazioni).
Se l’Italia del futuro sarà senza le macchie di leopardo del passato, allora potremo dire che perfino la crisi sarà servita a qualcosa.
Guarda online il video dell'intervento di Francesco Daveri al convegno Indicod-Ecr “Oltre la crisi: modernizzare il Paese” dello scorso 28 gennaio 2009.
*A cura di Francesco Daveri, professore di Politica economica presso l’Università degli Studi di Parma