Il problema italiano è la (mancata) crescita
l'opinione di
Prima di arrivare ad affermare che la crisi dei consumi è una possibilità concreta per il futuro molto prossimo del Paese, valga qualche considerazione generale, a mo’ di premessa sul ruolo dell’incremento dei prezzi che stiamo subendo.
Un anno fa si cominciava a sentire la pressione del ritorno dell’inflazione. Per diversi motivi, tra i quali, bisogna ammetterlo, anche la disattenzione degli economisti, i contorni e le dimensioni drammatiche del fenomeno non apparvero subito chiari. In estate si saldò l’asse tra molte associazioni dei consumatori, alcune associazioni degli agricoltori e larga parte del sistema dei media, appassionatamente uniti nella polemica contro il sistema italiano della distribuzione commerciale. Era anche l’epoca che vide importanti politici scoprire il brivido della teoria dell’organizzazione industriale applicata al sistema agroalimentare, con la conseguenza che il concetto di filiera lunga, evidentemente da accorciare, acquisì repentinamente una straordinaria popolarità presso i salotti buoni, televisivi e non. Di tutte queste chiacchiere oggi non è rimasto quasi nulla, salvo qualche voce isolata che lancia appelli surreali per l’intervento del Governo nell’economia di mercato al fine di controllare i prezzi praticati da alcune centinaia di migliaia di punti vendita.
La polemica, insomma, è finita, e i toni accesi hanno finalmente lasciato il posto a considerazioni ben più serie e seriamente preoccupate. Il motivo è semplice: l’ondata planetaria di rincari dei corsi delle materie prime agricole ed energetiche sostanzialmente non ha risparmiato nessuno, e in alcune aree del mondo la peggiorata condizione delle popolazioni a reddito medio-basso rischia di creare instabilità sociale e politica. È in corso una grande riallocazione di ricchezza dai paesi consumatori ai paesi produttori netti di materie prime, tra i quali non soltanto gli aderenti al cartello dell’Opec, ma anche l’Australia, il Canada, l’Ucraina e gli altri grandi esportatori di materie prime alimentari (al lordo di perdite derivanti, comunque, dall’incremento del prezzo del greggio, cui tutti devono sottostare).
La situazione dell’inflazione italiana è perfettamente in linea con il resto dell’Europa. È addirittura noioso il controllo dei settori più inflazionistici: come accade da mesi, i tre capitoli sotto tensione sono alimentazione, trasporti e combustibili, in Italia e in tutti gli altri paesi.
L’inflazione alla produzione è più dinamica di quella al consumo. Ma non perché l’industria manifatturiera italiana è composta da biechi profittatori, quanto perché l’incremento dei costi delle materie prime è stato repentino e straordinariamente intenso. La catena di trasmissione dall’origine, alla produzione, fino all’intermediazione e alla distribuzione ai consumatori, rallenta e smussa gli impulsi sui prezzi, sia quando sono al rialzo sia quando sono al ribasso, soprattutto per le ovvie ragioni legate alla formulazione e al timing dei contratti di compravendita che devono avere riferimenti a prezzi medi su più periodi.
È dunque piuttosto ingenuo, tanto per fare un esempio, pretendere che, a fronte di una riduzione marginale del prezzo all’origine su un singolo mese, si riscontri analoga variazione sui prezzi alla produzione o al consumo. La traslazione ha bisogno di tempo e non c’è comunque una relazione diretta tra il prezzo alla produzione, che può essere per esempio esportata, e il prezzo al consumo, che deriva anche dalle quotazioni dei prodotti importati.
Cosa si può fare contro questo tipo d’inflazione? Nel breve periodo niente. E infatti nulla è stato fatto se non correggere al rialzo continuamente le stime dei corsi delle materie prime energetiche e non e, conseguentemente, la previsione del tasso d’inflazione al consumo (a questo punto, per il 2008 più prossimo al 4% che al 3%).
Resta il fatto che le tensioni inflazionistiche si metabolizzano meglio in un’economia che cresce oltre il 2% reale, come nella maggior parte dei paesi europei in questo primo scorcio dell’anno, piuttosto che in un sistema prossimo alla crescita nulla (+0,3% il Pil tendenziale in Italia nel primo quarto rispetto al 2,2% della media europea).
Per alcuni è un discorso fastidioso, ma il problema italiano, tutto italiano, non è l’inflazione ma la (mancata) crescita. Prendete nel 1990 tre famiglie uguali per caratteristiche socio-economico-demografiche, salvo per il fatto di risiedere una in Francia, una in Germania e l’altra in Italia, il cui reddito sia 100. Diciassette anni dopo, nel 2007, il reddito reale disponibile di quella francese è superiore a 144, quella tedesca percepisce oltre 122, quella italiana poco più di 105. È andata così e c’è poco da aggiungere per spiegare l’odierno sentiment delle famiglie italiane, sia in termini di povertà soggettiva o d’inflazione percepita (ai massimi dall’inizio degli anni ’80).
Le cause del declino della produttività totale dei fattori – quel di più che sortisce dall’immissione di lavoro e capitale nel processo produttivo – sono note e condivise: deterioramento del capitale umano, schiacciato per trent’anni da un sistema formativo che avvilisce merito e responsabilità, difetto di infrastrutture, soprattutto immateriali, quali la giustizia e il sistema di sicurezza personale e sociale, deficit e confusione istituzionale, che si palesano nella proliferazione dei centri decisionali centrali e locali a fronte di una riduzione netta delle decisioni adottate. Oggi è più profittevole puntare alla carica di presidente di quartiere che intraprendere la carriera di ingegnere elettronico (non parliamo di rischiare in un’attività commerciale!).
In questo scenario, il passaggio dell’inflazione nel giro di un anno dall’1,7% al 3,7% ha provocato effetti devastanti sui consumi, come sintetizzato dalla tabella. L’Indicatore dei Consumi Confcommercio è un’elaborazione parziale e soggetta a revisioni. Tuttavia la sua correlazione con i dati Istat è piuttosto elevata. L’evidenza che negli ultimi nove mesi si sono registrate sette variazioni negative delle quali sei soltanto negli ultimi sette mesi dovrebbe lasciare poco spazio alle interpretazioni ottimistiche. Inoltre, il dato più preoccupante nasce dal confronto dei tassi di variazione tra i primi cinque mesi del 2008 rispetto al 2007 (-1,9% reale) e la variazione dell’analogo periodo del 2007 rispetto al 2006 (+1,1%).
E qui si inseriscono a sorpresa i diversi registri linguistici dei commentatori. Ai toni preoccupati (forse siamo in recessione), si alternano i richiami tecnici alla definizione di recessione (variazione negativa del Pil per due trimestri consecutivi: non siamo stati e non siamo in recessione); all’evocarsi di una crisi dei consumi si contrappone la speranza di un superamento – non si sa come – dell’involuzione della fiducia delle famiglie. Taluno stigmatizza la valenza negativa del pessimismo mediatico mentre altri si spingono a denunciare l’oscura presenza di commentatori menagramo.
Ciascuno valuti come meglio crede i dati oggi disponibili. Aggiungo soltanto, per completezza, che il fatto che l’esecutivo abbia messo da parte l’idea di una riduzione organica e generalizzata della pressione fiscale, proponendo in alternativa una pluralità di provvedimenti - certo utili ma privi di un vero effetto segnaletico nei confronti della pubblica opinione - testimonia la precarietà degli equilibri di finanza pubblica, fattore che si salda con i problemi strutturali e congiunturali prima evidenziati, e da questi ultimi negativamente orientato. Infine, tra i dati della rilevazione sulle forze di lavoro per il primo trimestre 2008, si scorge l’evidenza statistica di un tasso di disoccupazione in crescita, anche repentina. Ciò ha una doppia lettura. Da una parte, la maggiore offerta di lavoro è una notizia favorevole, anche in presenza di uno sviluppo del valore assoluto dei lavoratori potenziali non immediatamente impiegati; cresce, in particolare, l’offerta di lavoro femminile. Dall’altra emerge un aspetto molto grave. È una sorpresa della quale avremmo volentieri fatto a meno: oltre il 60% delle nuove persone in cerca di occupazione sono appartenenti al Mezzogiorno del Paese, l’unica grande area nella quale il numero di occupati si è ridotto (di 15.000 unità). Questo prelude a un incremento ulteriore delle differenze tra performance economiche delle diverse regioni, una questione che certamente non agevola il compimento della transizione verso un federalismo solidale ed efficiente, una carta sulla quale ormai molti puntano (giustamente).
Dunque, il sospetto che il peggio non sia passato ma debba ancora arrivare, non è esercizio di pessimismo ma si basa sull’interpretazione dei fatti statistici di cui siamo a conoscenza. Non si vedono all’orizzonte eventi in grado di mutare radicalmente le tendenze in atto. L’unico spunto positivo di breve periodo che possiamo oggi segnalare riguarda la detassazione degli straordinari e l’eliminazione dell’Ici, provvedimenti del valore di 2,35 miliardi di euro che, supponendo di tradursi per il 50% circa in maggiori consumi già nel 2008, potrebbero migliorare il profilo dei consumi delle famiglie di un decimo di punto percentuale. Non più di questo.
*Direttore, Ufficio Studi Confcommercio