economia

Crescita 2007: niente di nuovo

l'opinione di

Francesco Daveri

Nel 2007 la crescita del Pil dell'Italia è stata inferiore di circa un punto percentuale a quella media dell'area euro. Ma particolarmente preoccupante è il confronto con Germania, Francia, Regno Unito e Spagna. Non si tratta di una novità: l'ultimo anno in cui il nostro Paese è cresciuto più rapidamente dei quattro grandi in Europa è stato il 1995, quando la nostra industria beneficiò di una cospicua svalutazione. La crescita potenziale limitata dell'economia italiana di questi anni dovrebbe rendere più cauti gli schieramenti nelle promesse elettorali.

Il Pil dell’economia italiana è cresciuto dell’1,5 % nel 2007, trainato soprattutto dalla rapida crescita delle esportazioni (+5,0 %) e dalla stabile crescita dei consumi delle famiglie (+1,4 %), mentre i consumi collettivi e gli investimenti sono cresciuti marginalmente meno del Pil (+1,2 % ognuno). In parallelo, le importazioni sono cresciute del 4,4 %, a conferma del fatto che l’economia italiana, per esportare, consumare e investire, ha comunque - e inevitabilmente - bisogno di acquistare prodotti dall’estero, cioè di partecipare pienamente ai processi di globalizzazione in atto.

Italia vs Europa

Il comunicato stampa con cui l’Istat ha diffuso i numeri del 2007 conteneva anche i risultati di una parziale revisione dei dati relativi alle principali grandezze aggregate per gli anni 2001-2006. Vale dunque la pena di valutare i dati 2007 in una prospettiva un po’ più ampia.
Come indicato nella Tabella 1 – La crescita dell’economia italiana e quella dell’Europa, la crescita del Pil dell’Italia nel 2007 è stata inferiore di circa un punto percentuale a quella media dell’area euro (+2,3 %) e dell’Europa a 27 (+2,6 %). Ma nel dato dell’area euro (“l’Europa a 13”) manca il Regno Unito e il dato dell’Europa a 27 include anche la crescita dei paesi dell’Europa orientale che stanno modernizzandosi a tassi probabilmente non più raggiungibili dall’Italia. Il raffronto più appropriato è dunque probabilmente quello con la crescita media dei quattro altri grandi paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna) che condividono istituzioni e vincoli simili a quelli cui è soggetta l’economia italiana.
È da questo confronto che esce il dato preoccupante per l’economia italiana: la crescita del 2007 è stata inferiore per circa un punto percentuale alla media degli altri quattro grandi paesi europei. Il Pil di Spagna e Regno Unito è aumentato a ritmi vicini o superiori al 3 % l’anno; quello della Germania è cresciuto del 2,5 %. E anche la crescita del Pil francese, nonostante la difficile congiuntura del paese, ha pur sempre sfiorato il 2 %.

Il divario di crescita: un problema non nuovo

Il differenziale negativo della crescita italiana rispetto agli altri grandi paesi europei non è purtroppo una novità.
Come indicato nella seconda colonna della tabella, la tendenza vale anche per tutto il periodo 2001-2007. L’unica rilevante differenza tra i dati 2007 e quelli medi per il periodo 2001-2007 riguarda la Germania, che era l’altro grande malato d’Europa nei primi anni Duemila e che invece figura tra i paesi con una crescita ben superiore a quella italiana nel 2007 (come del resto nel 2006).
Tra l’altro, il divario c’era anche negli anni Novanta. Anche se l’Istat non ha ancora diffuso la serie rivista per gli anni precedenti al 2000 (ha tuttavia promesso di farlo nel prossimo futuro), i dati del più recente Oecd Economic Outlook (n. 82, dicembre 2007) indicano cifre non molto diverse da quelle ottenute per gli anni Duemila. La Figura 1 – Crescita assoluta e relativa dell’economia italiana 1994-2007 riporta l’evoluzione della crescita economica in Italia e negli altri quattro grandi paesi europei dal 1994 in poi. L’ultimo anno in cui l’Italia è cresciuta più rapidamente degli altri quattro grandi in Europa è stato il 1995. Da allora, invece, il Pil nell’economia italiana è cresciuto sempre meno che negli altri paesi europei.
Cosa avuto di speciale il 1995? È presto detto: si è trattato dell’ultimo anno in cui i nostri produttori hanno potuto beneficiare di una cospicua svalutazione (nel 1995 la lira perse circa il 30 % rispetto al marco), il che ridiede fiato alle esportazioni italiane e, in parallelo, rese meno competitivi soprattutto i nostri concorrenti geograficamente più vicini. Da allora, uno degli obiettivi principali della politica economica italiana è stata la ricerca e il mantenimento della stabilità monetaria e valutaria, un passo necessario per essere ammessi nell’unione monetaria. Nel disegno di molti, soprattutto della Banca d’Italia, ciò avrebbe anche dovuto mettere alla frusta le imprese italiane e indurle a competere senza la droga della svalutazione. I dati dicono che purtroppo questo è successo solo in modo ancora troppo parziale. Anche se i numeri delle esportazioni degli ultimi due anni sono molto positivi e indicano crescenti successi del Made in Italy soprattutto nell’apertura di nuovi mercati, rimane il fatto che, sia nelle fasi di espansione che nelle fasi di recessione, il Pil nell’economia italiana è cresciuto marcatamente meno che negli altri grandi paesi europei, a loro volta non propriamente delle lepri nel quadro dell’economia mondiale. Ma questo è un altro discorso. Negli ultimi anni, è poi avvenuto il mancato miracolo economico dei primi anni Duemila che ha proseguito le tendenze in atto.

Implicazioni per il dibattito di politica economica

I dati dell’Istat mostrano che la crescita potenziale dell’economia italiana di questi anni è (e probabilmente rimarrà) limitata. Questo suggerisce due considerazioni.

La prima è che ogni volta che un governo ha provato a promettere crescita più rapida è stato puntualmente smentito dai fatti. Sarebbe dunque meglio che gli schieramenti politici accettassero il fatto che la crescita economica è, nel bene e nel male, largamente al di fuori delle loro possibilità di controllo e non si impegnassero con promesse difficili da mantenere.

Secondo, la bassa crescita potenziale del Pil suggerisce una certa prudenza nelle proiezioni sulle entrate fiscali future. In parallelo, suggerisce anche l’esigenza che i programmi elettorali dei vari schieramenti non siano solo liste di cose da fare ma anche di modalità di copertura realistiche delle (legittime) promesse elettorali.

(Tratto dal sito www.lavoce.info)