Università: un sistema da rifondare
l'opinione di
Gli Stati Uniti hanno le migliori e le peggiori università del mondo: le tengono ben distinte. Da noi, la legge non lo consente e la qualità è casualmente distribuita sul territorio. Se guardiamo alla qualità individuale, ovviamente troviamo anche da noi tanti bravissimi studenti e tanti docenti bravi. Ma quando mettono le nostre università nelle graduatorie internazionali, siamo sempre in fondo.
Cosa ci impedisce di fare come negli altri paesi, cioè di concentrare in alcune sedi i docenti e gli studenti migliori? Dopotutto, così eravamo una volta, quando insegnavamo al mondo cos’è una buona università! Per quanto ricordo, il salto di qualità – verso il basso – l’abbiamo realizzato quando siamo passati da un’università di élite ad una di massa, senza alcuna idonea riforma e soprattutto senza le risorse necessarie (pensiamo solo ai collegi che sarebbero stati necessari se gli studenti avessero dovuto essere tutti “a tempo pieno” nel campus dell’università!).
Nel corso degli anni, la dequalificazione dell’università ha peraltro contagiato i licei, che all’università preparano, e anche in questo caso l’indicatore più preciso è rappresentato dallo scadimento della valutazione cioè degli esami. Ricorderete che all’università i voti agli esami sono in trentesimi perché ogni studente viene valutato da tre esaminatori (ciascuno dà un voto da zero a dieci). E ricorderete che un tempo all’esame di maturità (vero e proprio esame di ammissione all’università), partecipavano come esaminatori docenti universitari.
Quel mondo è un lontano ricordo: i voti all’università sono ancora in trentesimi, e l’esame a fine liceo ancora si chiama di “maturità”, ma alla forma non corrisponde più la sostanza. Le riforme degli ultimi dieci anni hanno spesso copiato – senza aver però capito – modelli altrui. Come quando abbiamo sostituito i nostri corsi universitari di quattro anni con il cosiddetto 3 + 2; come avviene nel baccalaureato (di tre anni) più il master (di due) delle università inglesi. Il modello inglese funziona bene perché gli studenti si preparano negli ultimi anni di liceo nelle materie che gli serviranno nei successivi tre anni universitari, e su queste vengono esaminati per essere ammessi all’università. Dove gran parte degli studenti universitari si ferma al primo livello, cioè va a lavorare a 22 anni, avendo completato la loro preparazione.
Da noi, la gran parte degli studenti arriva impreparata all’università e il valore professionale del primo modulo, di tre anni, è comunque assai scarso. Quindi, tantissimi studenti non si fermano al triennio, ma proseguono col secondo modulo di 2 anni (master o “laurea magistrale”). In conclusione, quello che una volta si faceva in quattro anni oggi ne richiede (quando va tutto bene) cinque!!
Siamo l’unico paese al mondo in cui tutte le università hanno così tanti master!
Solo se anzitutto capiamo le nostre anomalie, rispetto ai paesi che più e meglio di noi investono nella formazione di capitale umano di elevata qualità, riusciremo a correggere i nostri difetti.
Per farlo, l’unico metodo è quanto ci raccomanda la strategia di Lisbona (2000): emulare le altrui “prassi migliori”! Peccato che anche nel nostro dibattito sulle riforme da fare, quasi sempre manchi questo riferimento essenziale. Anche perché è inutile proporre di imitare l’America: siamo troppo diversi, e non è con l’America che ci stiamo integrando. È meglio guardare all’Europa, le cui prassi migliori (ce l’ha ricordato il Governatore Draghi a fine maggio) stanno in Svezia, Finlandia, Regno Unito. In tutti questi casi, pur diversi per la dimensione dell’intervento pubblico, si cerca di combinare eccellenza ed equità: questi essendo i valori che caratterizzano la classe dirigente, è bene che i giovani li vedano già in funzione nel sistema formativo.
Una strategia di riforma adatta al nostro paese, e che tenga conto delle “migliori esperienze” europee, dovrebbe essere basata su tre principi:
1) Gradualismo: dopo tanti anni di decadenza, non illudiamoci che esistano miracoli e bacchette magiche. Ci vorranno molti anni e tanti soldi per garantire che qualche università di eccellenza si consolidi. Devono essere di dimensione ragionevole, come Cambridge ed Oxford, cioè intorno ai 15.000 studenti, tutti alloggiati nel posto, e con docenti a tempo pieno che pure vivono e lavorano nello stesso posto durante l’anno accademico. Solo per costruire i necessari collegi, ci vorrà qualche anno.
2) Autonomia: se devono essere in competizione (tra di loro e con le eccellenti degli altri paesi), le università migliori devono anche essere “padrone” del loro destino. Ciò richiede anzitutto una revisione delle regole relative alla governance interna delle singole università, oggi caratterizzata in modo da garantire solo l’equilibrio. Devono inoltre poter far pagare agli studenti il valore dell’educazione ricevuta, e pagare ai docenti stipendi adeguati.
3) Equità: lo Stato dovrà garantire che i “capaci e meritevoli” (è già nella Costituzione, basterebbe applicarla!) riescano ad essere formati nelle università migliori, indipendentemente dal reddito dei loro genitori. E ciò deve valere a partire dalle scuole che preparano all’ammissione alle università di eccellenza.
Quest’ultima osservazione riguarda anche un approccio strategico alla revisione del nostro sistema formativo: le riforme si iniziano dall’alto per poi scendere verso le scuole, con ciascun livello che è valutatore e quindi garante della qualità del livello inferiore. Non servono esami di licenza, ma veri esami di ammissione.
È in questo modo, con una strategia di emulazione nei confronti delle migliori esperienze europee, che diventi competizione anche all’interno del Paese, che riusciremo a porre le basi per un sistema in grado di formare – in modo affidabile – la classe dirigente di domani. È quanto confermano o iniziano a fare numerosi altri paesi europei, e sarebbe quindi disastroso se solo noi vi rinunciassimo.