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Gianluca  Diegoli L’opinione di Gianluca Diegoli

AI e customer experience: è il momento della svolta

Un'analisi del Politecnico di Milano rivela l'impatto dell'intelligenza artificiale sulla customer experience in Italia. Nonostante le resistenze, l'intelligenza artificiale sta rivoluzionando il rapporto brand-cliente, migliorando produttività e soddisfazione. Una scommessa cruciale per il futuro delle aziende

Innovazione Largo consumo

Il convegno AI for OCX (Intelligenza artificiale per l’omnichannel customer experience), promosso nell’ambito dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience del Politecnico di Milano, ha analizzato al microscopio della realtà come l’AI possa diventare parte integrante delle strategie omnicanale delle aziende italiane, non solo in quanto tecnologia, ma anche come leva organizzativa e culturale. Che poi è il punto più complicato, si sa.

E infatti l’analisi parte da una fotografia dei dati di adozione che non è esattamente rosea. La ricerca dell’Osservatorio mostra un quadro in miglioramento, ma sostanzialmente arretrato: oltre il 60% delle aziende si colloca nei livelli di maturità più bassi. Solo una minoranza virtuosa – solitamente chi ha già una buona strategia nell’AI (artificial intelligence -intelligenza artficiale, ndr) – riesce oggi a integrare strategia AI e progetti CX (customer exeperience - esperienza del cliente, ndr) in modo avanzato, mentre la maggior parte sperimenta ma senza industrializzare e scalare i progetti.

La customer experience è tema molto dibattuto nel marketing: tutti i brand, almeno come mission, la mettono al centro, ma al consumatore, almeno stando ai sondaggi di soddisfazione, questo non risulta. È quindi interessante capire se con l’intelligenza artificiale qualcosa è destinato a cambiare.

«Quando un’azienda investe nell’AI in senso generale, lo fa spesso anche a supporto della customer experience» è stato sottolineato in apertura da Andrea Meroni, ricercatore del Politecnico di Milano.

Anche a livello internazionale, oltre il 70% degli investimenti in AI è destinato a marketing e vendite, confermando che la frontiera più promettente è proprio quella della relazione con il cliente.

I percorsi di adozione non sono quasi mai lineari, e questo scoraggia le imprese. Leonardo Galimberti, Italy AI & data lead for financial services di Ernst & Young, ha testimoniato che «molte aziende hanno avviato sperimentazioni, un sacco di concept che si sono fermati allo staging o allo proof-of-concept (realizzazione incompleta o abbozzata di un progetto per dimostrarne la fattibilità), senza essere industrializzati, portati in produzione e scalati». Come al solito, tra il dire e il fare c’è spesso un mare di micro-problemi che non sono quasi mai puramente tecnologici.

Nervo scoperto, è la valutazione dei rischi per una tecnologia che non può garantire il 100% di precisione (e quale tecnologia può garantirlo, in effetti?). Josef Novak, founder di Spitch, una startup che si occupa di modelli AI per aziende, lo chiarisce: «Innovare significa navigare nel rischio. Non solo il rischio di fallire, ma anche rischi reputazionali, come le allucinazioni della AI in settori delicati». Per questo, le piattaforme aziendali devono includere strumenti di controllo che aiutino a mitigare questi pericoli. Si sente pronunciare spesso il termine guardrail: la AI è una macchina veloce, ma con un controllo limitato. L’unica cosa è mettere delle protezioni solide prima che vada fuori strada.

Le domande guida per il management restano le solite, semplici e radicali, che emergono quando un’innovazione digitale stravolge il modo di lavorare:

  • Quali approcci organizzativi servono?
  • Quali competenze possono trasformare l’AI in vantaggio competitivo?

Competenze e modelli organizzativi: il nuovo capitale di rischio

La ricerca testimonia che non è solo questione di tecnologia. Portare l’AI nella CX significa ridisegnare processi, in cui deve essere chiaro a ogni passaggio se è l’AI o l’umano a prendere in carico l’interazione. Non semplice, in organizzazioni aziendali che spesso non hanno risorse dedicate alla strategia e ai progetti innovativi, affidandosi spesso solamente ai fornitori esterni, che sviluppano appunto modelli di test che poi non hanno spazio per essere introdotti ulteriormente.

Servono, dice l’Osservatorio, competenze hard e soft: per le prime, curare il context engineering¹ e sviluppare data literacy (alfabetizzazione dei dati) diffusa, per le seconde inserire in azienda pensiero critico per individuare i bias dell’AI, incentivare la creatività per sperimentare nuove soluzioni, promuovere la collaborazione cross-funzionale per portare risultati concreti. Serve internalizzare professionalità, peraltro in continua evoluzione: dal CX designer di chatbot al prompt engineer e disporre di competenze umanistiche in ruoli come conversation analyst o knowledge manager (gestore delle conoscenze).

Molti progetti falliscono non per la tecnologia in sé, ma per l’assenza di basi organizzative solide, dati solidi e processi documentati. Come ha ricordato Luca Mastroianni vp partnership di Indigo.ai: «Il successo dipende dall’esistenza di processi ben documentati e adottati, e di dati di supporto condivisi e validati. Garbage in, garbage out, resta una regola valida». Cioè, se quello che inserisci nei sistemi è spazzatura, anche il migliore sistema di AI non potrà che restituire spazzatura.

Decisivo è quindi creare in azienda modelli organizzativi ad hoc: dal center of excellence centralizzato, che funziona come un centro di competenza, una specie di startup al servizio di altre funzioni (che rischia però di rimanere isolato dal resto dell’azienda), al modello di introduzione diffusa, che però potrebbe peccare di insufficienti coordinamento, visibilità e risorse.

Pattern virtuosi e risultati concreti

Dove c’è metodo, in effetti i risultati arrivano. L’Osservatorio ha mostrato alcuni casi di uso di successo che si ripetono:

  • Applicazione al CRM: la sentiment analysis delle richieste, la classificazione degli intenti dei richiedenti, la sintesi automatica delle conversazioni ha portato a un +28% di produttività. «L’AI ci aiuta a identificare i ticket con sentiment negativo e a priorizzarli, così possiamo gestire prima i casi più critici» dice Marcello Brivio, digital & CX manager, PRG di Prenatal Retail Group.
  • La AI crea una specie di front-line aumentata. Nel caso di Orange Business si riscontra una riduzione del 58% dell’ansia lavorativa, del 47% dei costi di formazione e un aumento del 34% della soddisfazione dei clienti.
  • Uso per creare analytics predittivi: un retailer ha creato modelli AI che identificano i clienti a rischio abbandono, ma che può (almeno in teoria) arrivare a stimare la loro probabilità di essere genitori per personalizzare comunicazioni e assortimenti.
Tutti i progetti sostenibili hanno un punto in comune: «Devono avere un ritorno misurabile. Non basta la bellezza della tecnologia, serve l’impatto su acquisti, costi o customer satisfaction», sostiene sempre Marcello Brivio, nell’assenso generale.

Il ruolo della AI nella customer experience non è più solo una questione di costi di personale da abbattere, anzi. Le persone, supportate dalla AI, possono diventare più produttive e, tasto delicato per chi si occupa di rapporti con il cliente, meno stressate. Il lavoro nei contact center è da questo punto di vista uno dei più delicati. “Il 58% di chi lavora a contatto con i clienti sperimenta livelli di burnout”, è stato ricordato nell’Osservatorio.

L’AI aiuta a creare un filtro di primo livello, riducendo la numerosità e la ripetitività dei compiti, e a concentrarsi sui casi in cui l’intervento umano è richiesto e apprezzato. Ma non solo, aiuta anche le persone a essere più informate. Gli assistenti AI suggeriscono risposte e procedure, ma la persona resta al centro: «L’agente (umano) può accettare il suggerimento o correggerlo» sostiene Carlo Valentini, senior marketing manager Italy and Mediterranean di Zendesk.

Per migliorare, l’AI valuta le risposte delle persone e le persone valutano le risposte della AI. Un po’ distopico, ma funziona. In ogni caso, il risultato è un «livellamento verso l’alto della qualità», le risposte sono più coerenti e gli operatori si sentono più sicuri. «È come se fornissero sempre la loro prima risposta del turno, fresca e con il giusto tono», conclude Carlo Valentini.

Rischi, precauzioni e futuro

E dal punto di vista legale e privacy, incubo ricorrente di marketing e customer manager? Il problema dei dati sensibili, la data governance e l’applicazione dell’AI Act, il nuovo regolamento europeo, sono i temi che rischiano di rallentarne ulteriormente l’applicazione. Se è fuori discussione immettere dati sensibili (o segreti aziendali) in applicazioni AI generaliste e non presidiate (posto che non lo facciano le persone in azienda per conto loro, ndr), nasce anche la necessità di una trasparenza assoluta verso il cliente sull’uso che si fanno dei dati raccolti. L’AI Act introduce un approccio risk-based, distinguendo ruoli e responsabilità. «Il fornitore è soggetto agli obblighi di progettazione, l’utilizzatore deve governarne l’impiego. Entrambi devono garantire trasparenza e formazione» ha spiegato l’avvocato Gabriele Falco dello Studio Legale Panetta. Tra gli obblighi spicca la formazione. «Le aziende devono formare dipendenti e collaboratori rispetto ai rischi e ai benefici dell’AI. È già vincolante».

Riusciranno le nostre aziende a considerarlo non un mero adempimento dovuto, ma un fattore che può diventare vantaggio competitivo, come sostenuto dall’avvocato? Sempre più clienti e partner, «chiedono garanzie sulla gestione etica e sicura dell’intelligenza artificiale» conclude Gabriele Falco. Visti i precedenti sulla sicurezza in azienda e GDPR, il giudizio rimane sospeso.

La customer experience sta (già) vivendo una trasformazione profonda. Il cliente (di quelle aziende che avranno risorse sufficienti per imbarcarsi in progetti non certo facili, economici e rapidi) non dovrà più essere al centro per dichiarazione di principio, ma attraverso funzioni concrete che gli semplifichino la vita.

Come per ogni cosa legata alla reputazione e al brand, il ritorno dell’investimento della CX è sempre di medio-lungo periodo. Trattenere i clienti, migliorare la satisfaction con progetti di questo tipo non provoca miglioramenti intercettabili dai primi resoconti trimestrali, e in cui i numeri di OpEx² non calano ancora e quelli di CapEx invece cominciano già ad aumentare.

E quindi finanziare (in questi tempi di riduzioni di budget) questi progetti non è facile per i decisori aziendali: serve visione di lungo periodo, volontà del management e della proprietà di dedicare parte del budget a progetti che non sempre arrivano al traguardo, ma quando ci riescono possono davvero cambiare la percezione del brand verso dipendenti e clienti nel momento critico di contatto, in cui il brand deve rispondere, conversare, risolvere. Che poi è l’unico momento che il cliente ricorda a distanza di tempo. Una scommessa rischiosa, ma il cui rischio più alto potrebbe essere non giocarla.


¹È essenzialmente l'attività di fornire tutte le informazioni di base e il contesto necessari in modo dinamico in modo che un'intelligenza artificiale possa rispondere in modo efficace ed eseguire attività in modo plausibile.

²Con OpEx si indicano i costi quotidiani per far funzionare un’azienda – stipendi, bollette, canoni software – mentre CapEx rimanda agli investimenti più strutturali e duraturi, come sistemi IT, impianti o infrastrutture.

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