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Economia e consumi Largo consumo

Strategie vincenti con la giusta cultura aziendale

Una lezione che ha fatto da sottile fil rouge di tutto Linkontro NIQ 2025, con esempi virtuosi per il largo consumo

Cultura aziendale - Linkontro 2025

In Italia solo il 10% dei dipendenti, all’incirca, è davvero coinvolto nella cultura aziendale. C’è poi un 30% che lo è solo in parte, mentre la maggioranza assoluta, attorno al 60%, è completamente indifferente alla stessa. Il nostro paese risulta anche uno di quelli con i livelli di stress lavorativo più alto.
Sono solo alcuni dei dati emblematici del Gallup Report menzionati da Paolo Grue, presidente e ad di Procter & Gamble Italia, durante il suo intervento a Linkontro NIQ 2025. All’evento di riferimento nazionale per il settore del largo consumo, il tema della cultura aziendale è stato un elemento unificante di tutti gli interventi, la conditio sine qua non alla base di ogni successo duraturo, che parte appunto dall’interno dell’organismo imprenditoriale, per poi diffondersi lungo tutta la filiera.

Una cultura di velocità ed eccellenza, più che di autoritario perfezionismo

«La cultura di un’organizzazione è la coscienza collettiva di un’impresa, l’aria che si respira camminando tra i corridoi e soprattutto il ponte tra la definizione di una strategia e l’esecuzione della stessa: se non c’è questo passaggio di condivisione efficace anche la migliore strategia, la più corretta, sarà mal eseguita».
Paolo Grue, presidente e ad di Procter & Gamble Italia.

Questo vale ancora di più in un contesto altamente volatile e in rapida trasformazione, che impone di «cambiare i modelli di apprendimento interni, imparare e disimparare continuamente, eventualmente sbagliando di volta in volta, ma aggiustando agilmente il tiro, perché la vera strategia oggi è saper cambiare strategia», prosegue Grue.
I primi responsabili di questa transizione sono i manager, cui lo stesso report Gallup attribuisce il 70% di incidenza sul tasso di coinvolgimento dei collaboratori. Chi sta al vertice, però, deve rivedere innanzitutto la propria cultura di comando, perché «in un mondo complesso le strategie non possono più essere solo top down, ma devono essere anche bottom up. Dall’alto si dà la macro-direzione, ma chi sta sul campo e conosce la situazione da vicino deve avere margine di azione. Nel mio mondo i capi indicavano il come e il cosa, con linee guida dettagliate per avere una perfetta esecuzione: applicare questo processo oggi è difficile se non utopico, la perfezione non funziona, meglio ragionare in termini di eccellenza da raggiungere adattandosi via via al contesto, come variabile mobile», conclude Grue.

Una cultura di valorizzazione delle diversità e dell’empowerment

«I meeting più avanzati sono quelli in cui entrano i punti di vista di tutte le generazioni».
Isidoro Colluto, customer team director di Gruppo Barilla

Viene posto quindi l’accento su una delle diversità forse più sottovalutate dagli sforzi inclusivi: quella tra prospettive diverse, spesso legate alla fascia anagrafica. Ancora una volta a fare da ostacolo in tal senso è la cultura del nostro sistema paese, quella di stampo paternalista che vuole i giovani per definizione meno competenti e più ingenui, da plasmare a propria immagine e somiglianza, più che valorizzare come fonte di scambio fruttuoso. Un ageismo che non risparmia, d’altro canto, neppure i senior e che si abbina ad ancora solide resistenze patriarcali. Una su tutte quella che attribuisce “naturalmente” alla donna, dal diventare madre fino alla fine dei suoi giorni, il maggior carico di cura familiare e domestica, impedendole di esprimere appieno il proprio apporto su altri fronti.

«Al di là dell’elemento etico e di giustizia sociale, c’è un tema economico molto semplice che indica perché la componente femminile vada valorizzata in azienda: si tratta da un lato di reperire talenti e risorse oggi sempre più scarse, dall’altro di migliorare le performance, che i dati confermano essere più alti dove questo avviene».
Silvia Bagliani, managing director di Mondelēz Italia
«I nostri processi promuovono la parità di genere, per la quale siamo certificati, ma che vediamo anche in numeri legati proprio alla cultura aziendale, come il fatto che il 100% dei padri usufruisca dei giorni aggiuntivi di paternità che offriamo - un esempio a riprova del fatto che - anche gli uomini abbiano un ruolo importante da giocare in questo cambiamento, soprattutto nei ruoli apicali».
Gianluca Di Gioia, hr director di Birra Peroni e co-chair di LEAD Network Italy Chapter.

Una cultura di filiera e di condivisione dei dati

Da ultima, non per importanza, serve una cultura della collaborazione di filiera in alcune aree strategiche, capace di creare vantaggiosi modelli win-win oltre la competizione. A rappresentare una best practice, in questo senso, è il modello di condivisione dei dati impostato dalla catena di supermercati inglesi Morrisons, raccontato a Linkontro dal suo ceo.

«La digitalizzazione per noi è una priorità che deve coinvolgere anche i fornitori, perché abbiamo bisogno di tutti i dati per conoscere i nostri consumatori uno a uno (parliamo di 2 milioni di clienti al giorno). I nostri dati sono disponibili immediatamente per i fornitori già alla fine della giornata: chi ha comprato cosa e quanto, a che prezzo e così via. Stiamo lavorando a una piattaforma strutturata per offrire loro accesso a queste informazioni in tempo reale, per poter così agire insieme di conseguenza e crescere, aumentando i volumi. Ogni tre mesi, poi, mi incontro con i fornitori per capire come possiamo migliorare insieme e più velocemente».
Rami Baitiéh, ceo di Morrisons

Non esiste, in sintesi, un saper fare e stare sul mercato che prescinda dal saper essere azienda e dal sapersi pensare come tale, in modo compatto ma vitale, autonomo ma connesso.

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