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Gianluca  Diegoli L’opinione di Gianluca Diegoli

Il paradosso del B2B online: grandi cifre, piccoli cambiamenti

In attesa di un cambiamento di mentalità

Innovazione Largo consumo

Nel 2025, l'e-commerce B2B globale supererà i 1.600 miliardi di euro, il doppio del B2C online (oltre 840 miliardi), con una crescita annua prevista di quasi il 9% (Fonte: Statista). Secondo i dati Gartner citati da Netcomm, oggi l’80% delle vendite B2B avvengono su canali digitali.

Con questi dati in mente le grandi speranze collettive vanno in onda al Netcomm Focus B2B Digital commerce: speranze degli e-commerce manager B2B, speranze dei manager dei marketplace, speranze degli account dei fornitori di tecnologia, di AI (artificial intelligence - intelligenza artificiale, ndr) e strumenti di comunicazione. I primi cercano di ritagliarsi un ruolo non ancillare rispetto alla forza vendita, i secondi tentano di portare le aziende ad aprirsi ai marketplace (per le PMI si tratta di entrarci, per le big di crearsene addirittura di propri), i terzi sperano di trovare un nuovo mercato di sbocco di strumenti digitali in un trend non brillante. Esaurita la spinta propulsiva del B2C la industry della vendita digitale ha rivolto lo sguardo verso il fratello “meno glamour”, ma che povero in effetti poi non è, almeno se lo si guarda a livello di fatturato complessivo, di crescita e di penetrazione.

Numeri da record, da valutare

Il mercato dell’e-commerce B2B in Italia, secondo i dati presentati a Netcomm, arriva in effetti tranquillamente ai 500 miliardi di fatturato, certo uno spillo globale ma che vale varie volte quello nazionale B2C. Secondo Netcomm, il 61% delle aziende italiane B2B con ricavi superiori ai 2 milioni di euro è attivo nel mercato dell’e-commerce B2B, generando l’11% del loro fatturato totale tramite canali digitali, con una previsione di crescita fino al 25% nei prossimi tre anni.

Il punto cruciale è che i confini di misurazione dell’e-commerce B2B sono piuttosto sfumati, perché quasi mai la transazione comprende un pagamento nella piattaforma stessa, elemento che rende più facile tracciare l’e-commerce B2C. E del resto cosa non è transazione “elettronica” oggi? Un ordine concluso via email è commercio elettronico? Una call Teams con il cliente per la firma è transazione elettronica? Una vendita del customer care via chat, telefono o video è inclusa? Probabilmente sì, ma queste modalità non sono certo sinonimo oggi né di efficienza superiore alla media di mercato né tanto meno di innovazione estrema. Sono la realtà delle aziende “normali”, non di quelle “eccellenti”.

Nella valutazione della rilevanza di una cifra simile per l’e-commerce B2B va poi tenuto in considerazione che questa cifra è una sommatoria di più livelli: quello dei produttori industriali, in cui il prodotto viene immesso nel mercato, si somma al primo livello, quello dei distributori, che a sua volta si somma a quello di agenti, grossisti e intermediari vari, che vendono infine ai retailer e alla distribuzione tradizionale. La stessa bottiglia di vino viene venduta e comprata almeno quattro volte nella stessa filiera B2B, per fare un esempio pratico, ma nel B2C viene venduta (e contata) solo una volta.

Quindi, prima di gridare al miracolo del fatturato B2B, visti i limiti della misurazione, ne vanno puntualizzati gli obiettivi. Secondo me andrebbe misurata (ma è molto più complesso) l’efficienza generata nella vendita (minori costi di vendita per cliente, migliore upsell, ecc.), ancora più che il fatturato generato.

Non che la ricerca di efficienza e di miglioramento delle relazioni con clienti esistenti non sia già un enorme compito per la maggior parte delle aziende italiane e una letterale miniera inesplorata di miglioramento dei risultati economici e dei margini. Migliorare il margine di vendita del 10% ha lo stesso valore di aumentare del 10% le proprie vendite. Aumentare il tasso di ripetizione degli acquisti del 20% ha lo stesso valore di un aumento del 20% del numero di clienti. Ma per raggiungere entrambi gli obiettivi, che possono essere attribuiti a un progetto B2B, il cambiamento necessario è quasi culturale, più che tecnologico.

Più cultura del cliente, anche nel B2B

Il problema è nel DNA (o nel peccato capitale, a seconda di come lo si vuole vedere) della maggior parte delle aziende italiane.

La maggior parte delle aziende italiane si trova ancora nella fase “prodotto-centrica” e non “cliente-centrica”, un approccio ormai superato nelle economie digitali più avanzate.

Questo è dove punta l’analisi dell’Osservatorio Digital B2B del Politecnico di Milano, presentato anche questo a Netcomm, in cui emerge un quadro di maturità digitale non esattamente avanzato. Le aziende italiane si distribuiscono, secondo il Politecnico di Milano, in quattro cluster principali (denominati usando una certa dose di eufemismo, devo dire) rispetto all’approccio cliente-centrico:

  • Explorer (36,5%).
  • Experimenter (32%).
  • Adopter (26%).
  • Strategic Deployer (solo 5,5%).

I primi due cluster (quindi il 68,5%) sono ancora agli inizi del percorso, sempre che lo abbiano intrapreso.

Interessante il modello di maturità presentato da Paola Olivares, direttrice dell’Osservatorio, che valuta le aziende su quattro dimensioni fondamentali, di cui nemmeno una è una skill strettamente tecnologica: modello organizzativo, competenze e cultura aziendale, conoscenza del cliente, collaborazione esterna con clienti e distributori.

Cosa fare dunque? Il Politecnico suggerisce alcuni punti (tutti con la C di cambiamento, evidentemente per farli ricordare meglio alle aziende). “Le quattro C per il Cambiamento” sarebbero:

  1. Comprendere l’importanza di un approccio orientato al cliente, diffondendo questa consapevolezza dai vertici aziendali.
  2. Conoscere i propri clienti attraverso la raccolta dei dati e la comprensione delle loro esigenze.
  3. Condividere dati e informazioni con partner e stakeholder della filiera.
  4. Coltivare la relazione con i clienti fornendo formazione e supporto costanti.

Sbagliato generalizzare, ma l’orientamento al cliente è ancora qualcosa di poco diffuso. La logica di appartenenza del cliente “a un canale di vendita” spesso prevale sull’esigenza della massima soddisfazione del cliente stesso. Non è raro vedere clienti di grandi dimensioni essere indirizzati all’agente in carne e ossa quando vorrebbero tranquillamente comprare online, solo per “politiche interne”.

E la conoscenza del cliente? Molte aziende non hanno ancora un vero e proprio CRM (Customer Relationship Management, l'insieme di tecnologie, processi e analisi dei dati per ottimizzare la gestione delle relazioni con i clienti, ndr), e in mancanza è impossibile costruire un qualsiasi e-commerce B2B. Ma il problema è ancora più grave di questo: non possono gestire i clienti in modo contemporaneo.

I punti 3 e 4 sono chiari esempi di vexata quaestio (questione tormentata, ndr) da sempre, nel B2B. Condividere dati con partner? Partnership? Una strada in salita, in un settore fatto di PMI in cui rivalità personali si intrecciano alla competizione di mercato. Anche la relazione con il cliente, fatta non solo di transazioni, ma anche di contenuti, è spesso trascurata. Il modello è ancora sostanzialmente in molte aziende quello di inizio secolo: il cliente lo si coccola in fiera prima della firma del contratto, lo si abbandona spesso a sé stesso, senza un supporto online degno di questo nome, poi lo si visita di persona magari una volta l'anno. Oggi questa formula, con una audience di compratori B2B che sono nativi digitali, funziona male e funzionerà sempre peggio. Il 71% dei buyer B2B sono ormai millennial e generazione Z, dice Forrester Research.

Comunque i casi di successo non mancano, in Italia, e sono quelli che la vetrina del Netcomm giustamente valorizza: aziende del settore agroalimentare che hanno creato piattaforme per semplificare gli ordini internazionali B2B, imprese che grazie all’automazione della gestione ordini hanno significativamente ridotto costi e tempi operativi, rivenditori di attrezzature online che riescono a vendere in tutto il mondo grazie a un servizio clienti eccezionale – e appunto alla conoscenza del cliente. Ma sono spesso eccezioni.

Nonostante il problema sia più culturale che tecnologico, non tanto implementare queste tecnologie quanto integrarle in un ecosistema coerente, i fornitori stanno facendo a gara per offrire strumenti per migliorare la filiera B2B con nuove soluzioni. Non può mancare l’intelligenza artificiale: come dimostrato dal caso d’uso di ricerca ricambi intelligente presentato da Salesforce, l’AI può ridurre del 50% i tempi di ricerca dei prodotti per i buyer, aumentando l’efficienza operativa. Ci sono poi i leggendari digital twin, repliche digitali di prodotti e flussi, utili per simulazioni realistiche: entro il 2027, si prevede che il 20% delle organizzazioni li utilizzeranno (sono abbastanza dubbioso, visti i presupposti di maturità del mercato su tecnologie ben più base). Altro trend: i connected product: entro il 2028, 15 miliardi di prodotti connessi agiranno come clienti nelle transazioni B2B. Sarà un po’ il processo di produzione e distribuzione che compra per sé stesso in modo autonomo.

Ad ascoltare i casi dei manager presenti si respira aria di concretezza: migliorare la user experience delle landing page, canalizzare le lead in modo da non perdersi per strada le opportunità, ottimizzare la SEO (Search Engine Optimization, l'insieme di tecniche e strategie che migliorano la visibilità dei contenuti web nei risultati organici dei motori di ricerca, ndr) e Google Ads (Google è ancora per enorme distacco il principale canale di acquisizione), migliorare il customer care, monitorare feedback dei clienti.

Secondo me è una strada saggia, almeno per il breve periodo.

Nel lungo periodo, però, un cambio di mentalità è necessario a livello strategico: il cliente B2B dovrà avere lo stesso trattamento (facilitato, personalizzato, mobile friendly, ecc.) a cui è abituato nell’acquisto B2C, e questo salto in avanti, e gli investimenti che comporta, non può che essere iniziato dall’alto, dall’imprenditoria in prima persona.

Le aziende che non lo faranno, probabilmente, dovranno lasciare la vendita online ad altri intermediari più in grado di allinearsi ai nuovi bisogni dei buyer, così smarrendo la relazione diretta con il cliente, forse il tesoro più prezioso del B2B.

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