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Il nuovo corso dei centri commerciali

Per i due miliardi di visitatori all’anno che passano tre miliardi di ore nei centri commerciali, questi ultimi sono luoghi di incontro e di interazione. «È tempo di superare l’idea dei centri commerciali come non luoghi», sostiene il vicepresidente del Cncc Renato Cavalli, che ne rivendica invece le caratteristiche di “luoghi”.

Sono i luoghi del commercio, anche se il commerciante individualista e indipendente non si sente a suo agio: «Il centro commerciale è uno strumento per rendere più socialmente collaborativa una categoria storicamente individualista». Sono i luoghi che prima di altri hanno riacquisito il trend positivo delle vendite «garantendo la presenza laddove il consumatore ne ha bisogno, perché il centro commerciale non nasce per catturare le persone con il prezzo, ma come punto di servizio». E infatti spesso prima di acquistare online i consumatori fanno un giro nel mall, «dove trovano anche quello che non cercavano».

E all’obiezione della responsabilità dei grandi templi del consumo nella desertificazione commerciale dei centri urbani, Cavalli oppone un ragionamento più articolato, che richiama la debolezza di certe situazioni territoriali che si desertificano perché perdono popolazione. «Il fenomeno è più complesso di quanto sembri - precisa – perché in realtà nei centri commerciali non solo si crea nuova occupazione, ma occorrerebbe considerare il saldo tra attività che chiudono e attività che aprono». Per fare un esempio, a Milano si è registrata negli ultimi anni una riduzione del 10% degli esercizi commerciali di abbigliamento, calzature e macellerie. Ma sono cresciuti del 47% quelli di ristorazione e take away. «La domanda da porsi è che cosa sta facendo la pubblica amministrazione per sostenere la presenza del piccolo commercio? Noi crediamo che occorra riportare i centri commerciali nei centri urbani. Come contenitori di consumo i centri contribuiscono alla formazione del Pil con un giro d’affari di 51 miliardi all’anno», afferma ancora Cavalli.

Proprio l’accento sui centri commerciali come riferimenti territoriali è posto da Giuseppe Roma, segretario generale Rur (Rete urbana delle rappresentanze), perché, afferma, «nella frammentazione del corpo sociale che ci lasciano gli anni della crisi, la visione economicistica non è più valida: i comportamenti sono più importanti della dimensione strutturale e i gruppi sociali vanno oltre il reddito. Oggi 15 milioni di italiani fanno acquisti sul web, ma il centro commerciale è sostanzialmente un web di mattoni, e la vera forza nei confronti del negozio di vicinato consiste proprio nella fruizione di touch spending: toccare i prodotti prima di comprarli. A ben guardare non è vero che il web ci allontana dal punto vendita».

Quanto al rapporto centro-periferia, Roma afferma che dei 30 milioni di abitanti dei contenitori metropolitani, che cresceranno a 33 milioni nel 2030, l’83% vive in periferia e il centro commerciale è un riferimento per le periferie. Ed è il presidio territoriale che va valorizzato in termini di maggiore sicurezza, di maggiore legalità, di maggiore contributo alla base fiscale dei comuni. «Il centro commerciale – sostiene Roma – deve esaltare le sue funzioni nelle periferie, sviluppando altre attività. Aggiungendo funzioni che esaltano la socializzazione», anche sondando nuovi territori, dando spazio alle start up, al coworking. Tutto ciò ne migliora l’immagine in senso generale. Ricordiamoci che il tema territoriale è il tema del futuro». Le possibilità per trasformare la folla in pubblico sono le più svariate, volendo superare l’idea dell’evento legato al semplice intrattenimento con il cantante di turno, alzando il tiro su eventi di tipo culturale, letterario, teatrale, scientifico, cinematografico e, perché no artistico, con esposizione delle tante opere d’arte che soggiornano impolverate nei magazzini dei tanti musei italiani.

Bastano queste argomentazioni per ridare lustro ai centri commerciali? Certamente sul piatto del nuovo corso vi sono temi come l’uso del territorio e la sostenibilità delle scelte architettoniche ed energetico-ambientali. E se su quest’ultimo tema probabilmente molta strada è ancora da percorrere, l’uso del territorio, inteso come riqualificazione di aree urbane o industriali dismesse all’interno dei reticoli urbani è entrato ormai nelle pratiche delle realizzazioni più recenti, portate a compimento spesso dopo qualche decennio dall’inizio dei progetti.

Alleato importante è la pubblica amministrazione, ma Pasquale De Sena, dell’Anci Lombardia, denuncia che il groviglio di regole nazionali, regionali e comunali non aiuta nemmeno il pubblico amministratore a muoversi con adeguatezza, anche a causa della mancanza di disponibilità di fondi: «Ormai noi come comuni siamo dei semplici esattori, per quanto riguarda l’Imu, per esempio. E spesso gli oneri di urbanizzazione invece che essere impiegati per gli investimenti vengono spesso utilizzati dai comuni per eliminare o ridurre il deficit della parte corrente del bilancio. Va poi aggiunto che i centri commerciali hanno contribuito in minima parte alla desertificazione commerciale: molte attività si sono trasferite per il caro affitti e per l’elevata imposizione commerciale», spiega De Sena, che fa l’esempio dei distretti del commercio in Lombardia che vanno a vantaggio proprio dei negozi di vicinato.

«È necessario guardare alla varietà delle cose – esorta Roma – non alla manutenzione dei luoghi comuni e si coglie nei centri commerciali l’interesse a diversificare i modelli iniziali verso un orizzonte migliore».

Ed è proprio con questo intento che il Cncc intende promuovere un progetto di ricerca su base europea per mettere a fuoco l’interazione tra centro commerciale e realtà esterne, non tanto sul piano economico, ma analizzando le ricadute sociali generali che oggi sono poco indagate.

A cura di Fabrizio Gomarasca
Foto di Marco Cuppini