
L’Italia sembra accontentarsi di un pareggio a reti bianche. L’economia tiene, i conti pubblici migliorano, il Pil cresce (poco), ma la partita vera (quella della produttività, dell’innovazione, dei salari e dei giovani) resta tutta da giocare. E intanto, sugli spalti, cala l’entusiasmo. Il Rapporto ISTAT 2025 racconta un paese che si difende bene, come riconosce anche il Fondo monetario internazionale, ma che fa fatica a costruire azioni da gol.
Il Pil cresce dello 0,7% nel 2024, come l’anno precedente. Un risultato che regge il confronto con la Germania in recessione, ma che impallidisce davanti alla Spagna (+3,2%). L’occupazione sale, soprattutto grazie ai contratti stabili, e l’inflazione si raffredda. I conti pubblici migliorano: il deficit scende al 3,4% e l’avanzo primario torna positivo. Il FMI applaude la “brillante performance fiscale” italiana, con lo spread ai minimi da anni.
Il problema è che non tiriamo più in porta: se scendiamo nei dettagli, infatti, l’Italia si limita a fare il compitino. La crescita è modesta, trainata poco dai consumi e ancora meno dagli investimenti. La produttività cala, soprattutto perché crescono i lavori a bassa intensità di valore aggiunto. E il risultato? Un aumento del costo del lavoro che penalizza la competitività.
In questo scenario anche i salari reali restano al palo: tra 2019 e 2024 abbiamo perso oltre il 10% di potere d’acquisto. Un parziale recupero c’è stato, ma insufficiente: dal 2004 a oggi, il reddito reale da lavoro è ancora più basso del 7,3%.
Figura 1 - Perdita del potere di acquisto (2019-2025)

Giovani ai margini e capitale umano in fuga
L’80% dei nuovi occupati ha più di cinquant’anni e i giovani, invece, restano ai margini. Molti inevitabilmente scappano: nel 2024 sono emigrati 21 mila laureati, a fronte di appena 6 mila rientri. Negli ultimi 10 anni ne abbiamo persi quasi 100 mila. È come se avessimo regalato agli altri paesi un’intera università ogni anno.
E chi resta, spesso, guadagna poco. Un giovane su tre lavora con contratti instabili o part-time involontari. Anche per questo, quasi un quarto della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Il dato sale al 30,5% tra le famiglie in cui il principale percettore di reddito ha meno di 35 anni.
Il tessuto produttivo italiano resta dominato da micro e piccole imprese, spesso poco digitalizzate e con scarsa capacità di innovazione. Crescono i settori ad alta tecnologia, ma il gap con Francia e Germania è ancora forte. L’adozione dell’intelligenza artificiale, per esempio, riguarda solo l’8% delle imprese italiane, contro il 20% in Germania, che pure è un paese in recessione. A pesare è anche il ritardo nella formazione: i laureati costituiscono solo il 21,6% della popolazione adulta, contro il 35,1% nella media UE. E il 45,8% degli italiani ha competenze digitali solo di base.
Il rischio è restare in panchina
Il Rapporto ISTAT è chiaro: se non partiamo in contropiede, la crisi demografica (con un’Italia sempre più anziana e sempre meno popolosa) ridurrà ancora la nostra capacità di crescere. Le aziende faticano a trovare personale qualificato, i salari non bastano, e intanto si allarga la distanza tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, tra chi può permettersi di restare e chi è costretto ad andare.
E allora, cosa vogliamo fare? Restiamo a difendere lo 0 a 0, evocando il Mondiale del 2006, o proviamo a scalare la classifica? Le buone notizie ci sono: conti pubblici sotto controllo, occupazione in aumento, resilienza in tempi incerti. Ma per tornare davvero a competere servono investimenti nelle competenze, nei giovani, nelle imprese innovative. Serve visione. E soprattutto, serve il coraggio di tornare a giocare all’attacco.