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Gianluca  Diegoli L’opinione di Gianluca Diegoli

Verso la fine del web e un futuro di informazioni

Un futuro che sarà di chi saprà cambiare pelle

Innovazione Largo consumo

Dalle pagine alle informazioni?

A chi serve visitare una pagina web quando puoi avere un’informazione? Con ChatGPT, mi dice la mia compagna, arrivo direttamente e senza dover trovare quello che cerco in mezzo a banner, pagine che non si caricano, e banner per la privacy.

Ci siamo talmente abituati a considerare la pagina web come un pilastro della nostra quotidianità informativa e anche, sull’opposto versante, il centro delle nostre strategie digitali di brand, che non riusciamo nemmeno a concepire un universo informativo differente.

Google aveva reso la ricerca di documenti talmente efficiente che in pratica l’offerta informativa si era adeguata alla domanda modellata dal motore di ricerca: se tutti cercano su Google, il fornitore di informazioni (dal giornale alla piccola azienda di provincia) si è messo a fabbricare pagine web ad accesso gratuito, a un ritmo forsennato e mai visto prima, con la speranza di monetizzare successivamente attraverso pubblicità, contatti, vendite. Ci sono oggi circa due miliardi di siti web online, dice Internet Live Stats, e quindi il numero di pagine web potrebbe essere anche cento volte più grande, chissà.

Non siamo in grado nemmeno di immaginarlo, uno scenario privo (o con ruolo residuale) di pagine web, perché siamo nati (anagraficamente o professionalmente) con questa tecnologia in mente: eppure, la pagina costruita in linguaggio html (l’ipertesto, linkabile e linkato, come si diceva un tempo) non è mai stata davvero un fine ultimo, ma solo un mezzo che l’efficacia del motore di ricerca ha reso per vent’anni la forma ideale per intercettare una propria audience. Un mezzo che era certo mille volte meglio di ciò che c’era prima - la ricerca su file cartacei, o anche nei microfilm da chiedere in biblioteca universitaria, per quelli come me, giovani-anziani – ma rimane comunque sempre un mezzo. Il fine è sempre stato saperne di più.

Ma non è per scoprire pagine web che le persone svolgono tredici miliardi di ricerche al giorno, solo su Google, nel 2025. Quello a cui si ambisce è sempre l’informazione (e non in senso elitario, giornalistico; informazione è anche capire quale farmacia è di turno): prima ce n’era troppo poca, e la conoscenza era opaca, mal distribuita e asimmetrica. Ora si dice che ce ne sia troppa, perché l’infodemia creerebbe, in fin dei conti, lo stesso risultato.

È impossibile bere dall’idrante. E oggi l’acqua che esce dall’idrante è infinita e di qualità estremamente variabile.

Le pagine web, nell’ansia della produzione e senza un limite fisico alla loro pubblicazione, sono per forza di cose di qualità scadente, per non parlare di tutto quel sottobosco di pagine generate automaticamente da bot prima e dalla AI (artificial intelligence - intelligenza artificiale, ndr) poi, monetizzate da banner dalla grafica infelice (gran parte vendute e comprati attraverso lo stesso Google), e linkate le une con le altre solo allo scopo di solleticare l’algoritmo di Google.

La pagina web non avrà la stessa allure della carta, non avrà nessun gruppo di nostalgici a difenderla o a ricrearla in versione hipsterizzata.

Una breccia nell’ecosistema perfetto di Google?

Ma a cosa ci riferiamo con informazione, posto che è il vero fine ultimo, il bisogno da cui partire per immaginare un futuro ecosistema? Anni fa per dipanare la questione e aiutare la strategia delle aziende lo stesso Google aveva creato un framework chiamato Micro-Moments, che aveva avuto parecchia fortuna in corsi e slide. Non a caso fu lanciato nel momento in cui l’impero di Google aveva raggiunto la sua massima estensione: quasi ogni cosa, nella vita delle persone, passava dalla grande G.

Erano quattro, i micro-momenti:

  • Voglio andare.
  • Voglio fare.
  • Voglio sapere.
  • Voglio comprare.

Quasi ogni nostra attività poteva, secondo Google, essere inserita in una di queste macro categorie. I momenti "voglio sapere" implicano esplorazione, come un proprietario di un cane che cerca la giusta terapia antipulci rispetto ai sintomi. I momenti "voglio fare" si concentrano sull'apprendimento: come imparare a piastrellare un bagno, per esempio. I momenti "voglio andare" implicano la ricerca di attività locali, come trovare un ristorante indiano o un parco in cui andare a correre. E naturalmente quella che è stata da sempre la cash-cow (mucche da mungere, ndr) di Google: i momenti "voglio comprare". Con questi si cercano informazioni concrete per un acquisto immediato, come cercare un brand o un prodotto o il prezzo migliore.

Google organizzava la conoscenza attraverso le pagine, le pagine si organizzavano per essere trovate da Google attraverso la SEO (Search Engine Optimization - ottimizzazione per i motori di ricerca, ndr): in parte scienza, in parte arte, in parte magia nera. Era il cosiddetto posizionamento organico (cioè non a pagamento), sogno proibito di tutti, “il primo posto su Google”. Google guadagnava in ogni caso attraverso il pay per clic, che lentamente si era mangiato tutto lo spazio della prima pagina per quasi tutte le ricerche, a sua volta a scapito del posizionamento organico. E così, a pochi centesimi a clic, per miliardi e miliardi di clic, Google è diventato Google.

Un ecosistema perfetto e inscalfibile apparentemente in cui prosperavano consulenti per la SEO (con il loro odio/amore per il grande motore deus ex machina), agenzia pubblicitarie che rivendevano i clic di Google, agenzie che facevano siti, copywriter che scrivevano i testi, esperti UX che le modellavano le interfacce per renderle più fluide e consulenti CRO (conversion rate optimization) per farle rendere di più quanto a vendite e contatti.

Certo, il mondo online è oggi anche e soprattutto “voglio trascorrere il tempo”: Tiktok, YouTube e Instagram si mangiano buona parte delle ore quotidiane dedicate all’intrattenimento, e sono sempre di più. Sono le ore passive, quelle traslate dalla tv direttamente allo smartphone. E le nuove cose da acquistare si scoprono da lì, in prevalenza. E almeno un 50% dei micro-momenti “voglio acquistare” avvengono direttamente su Amazon.

Ma in generale possiamo tranquillamente affermare che Google fonda ancora oggi il suo impero pubblicitario sull’essere il gateway dominante, se non esclusivo, dei nostri percorsi, delle nostre necessità informative, e alla fine degli ultimi clic verso gli store online e offline. Click pagati a caro prezzo dagli investitori pubblicitari, in una sorta di monopolio dell’ultimo miglio, sotto inchiesta in Europa e negli USA.

Con tutto questo da perdere, e un ignoto futuro da guadagnare, è comprensibile che Google si sta convincendo a malincuore solo ora a lasciare andare al loro destino le pagine web, che sono il motivo per cui è diventato Google: lo possiamo capire. Dopo aver cincischiato per quasi due anni ha da poco lanciato, per ora su un numero limitato di ricerche, la modalità riassuntiva, AI Overview, che risponde direttamente alle ricerche: non indica più un sito in cui cercare la cura antipulci del cane: te la dice direttamente, che è la stessa cosa che farebbe Chat GPT, Perplexity, Claude o un altro sistema basato sulla AI.

Al proprietario del cane non interessa visitare il sito: interessa la diagnosi. E quindi il numero di clic verso le pagine web sta calando, e calerà inesorabilmente. Il futuro è scritto?

Un futuro lontano ma inesorabilmente in arrivo

Secondo me lo è: solo non sarà equamente distribuito tra informazioni e nel tempo.

I tempi per passare da un’internet basata su (fornitori di) pagine a un’internet basata su (fornitori di) informazioni saranno tutt'altro che veloci.

C’è da cambiare il modo di pensare alle soluzioni informative di buona parte dell’umanità sopra i trent'anni, che è cresciuta googlando e leggendo pagine web.

Bisognerà capire come verranno remunerati (e se) coloro che forniscono le informazioni, considerando che ora a monetizzare nelle pagine web sono i banner lampeggianti e aggressivi. Che come ho detto, nessuno rimpiangerà, ma che Google non può uccidere troppo presto: se le persone smettono di cliccare sulla sua pagina principale, che sia un riassuntone fatto dalla AI o un elenco di clic, come farà i soldi richiesti dagli azionisti?

Sundar Pichai, CEO di Google, in una intervista a The Verge cerca dunque di sostenere che il web è ancora vivo, che le pagine sono aumentate del 45% negli ultimi due anni, alle quali Google continua a inviare traffico, anche con AI Mode, dato contestato da News Media Alliance (che chiama il sistema “furto”). Quello che Pichai vede però nel futuro è un (non)web come “serie di database”, con agenti AI che consumeranno API (application programming interface: cioè useranno procedure esterne remote), e faranno revenue sharing (condivisione dei guadagni, ndr): Uber, DoorDash, Airbnb potranno monetizzare l’accesso delle ricerche delle AI, come fanno le carte di credito per ogni transazione.

Succhieranno il nettare delle informazioni (pagando? Quanto?) senza accedere agli involucri ormai inutili di pagine online.

Di tempo per pensare ce n’è ancora: anche se ora è tutto un pullulare di articoli sul fatto che la ricerca AI ha già fatto crollare le visite ai siti. Ma potrebbe essere correlazione, e non causa, e il calo andrebbe verificato situazione per situazione, perché attualmente solo il 15% delle ricerche Google presenta a chi cerca la AI Overview, mentre ChatGPT e gli altri valgono meno del 3% delle ricerche di Google.

Chi scrive sui giornali tecnologici (e chi fa consulenza) sopravvaluta la tecnologia e sottovaluta l’inerzia comportamentale, da sempre.

Per quanto tra i digital savvy (esperti in campo digitale, ndr) la pratica di googlare attraverso la AI sia diffusa, nella realtà è ancora lontana dall’uso quotidiano della maggior parte delle persone. Sarà necessario monitorare la crescita in minuti dell’uso di ChatGPT, più che il numero di visite che ChatGPT porterà: siamo a circa venti minuti al giorno.

Chi vince e chi perde

La morte della pagina non sarà egualmente distribuita: questo è il punto della questione per navigare nelle acque agitate del nuovo tipo di web, se ancora vogliamo chiamarlo per comodità così.

Molte delle ricerche che oggi finiscono sotto l’etichetta “voglio sapere” andranno, semplicemente, disintegrandosi. Non spariranno nel senso apocalittico del termine, ma verranno riassorbite, normalizzate, riemesse in forma diversa. Le pagine che spiegano “come configurare una stampante”, “quale tablet scegliere sotto i 300 euro”, “10 idee per una cena vegetariana” o “cosa mettere in valigia per Bali a luglio” sono destinate a essere cannibalizzate da sistemi generativi come ChatGPT, Perplexity o gli AI Overview di Google stesso, che possono personalizzare all’infinito le risposte. A Bali a luglio ma con bambini? Low cost o glamping? Per vedere templi o per la spiaggia?

Un'intera categoria di siti web, quella della “content farm” (fabbrica di contenuti, ndr) fatta appositamente per scalare Google, si sta avviando velocemente a diventare obsoleta. I cosiddetti informational queries (ricerche di informazioni, ndr), che costituivano la maggioranza delle ricerche online, sono oggi il terreno dove l’AI può davvero eccellere: velocità, personalizzazione, assenza di frizione. Basta banner, cookie wall e infinite varianti della stessa ricetta di tzatziki. Addio cloni di Giallo Zafferano, addio Quora, addio siti con le versioni di greco.

Diverso è il discorso per i siti transazionali (voglio comprare): gli e-commerce, i servizi digitali, i siti delle banche, delle assicurazioni, delle compagnie aeree. Questi, paradossalmente, potrebbero addirittura guadagnarci da una disintermediazione dall’informazione cresciuta come erba infestante. Se il viaggio dell’utente si accorcia, se l’AI ti consiglia direttamente il sito di Booking o della compagnia ferroviaria, senza passare per tre comparatori e cinque articoli-SEO del tipo “I 5 migliori hotel a Milano”, allora il gioco si semplifica, e si rischia pure di risparmiare in click inutili. La SEO, in questo caso, si trasforma da “Search Engine Optimization” in “Source Engine Optimization” (ottimizzazione della fonte, ndr): essere considerati un ingrediente affidabile da un assistente AI conta più che scalare la SERP (Search Engine Results Page, ovvero la pagina dei risultati di un motore di ricerca, ndr) tradizionale. I consulenti SEO si stanno già riposizionando, senza cambiare nemmeno sigla.

E il giornalismo? Qui lo scenario è più sfumato. I siti di news generaliste, che pubblicano decine di articoli al giorno senza una vera identità editoriale, rischiano di essere equiparati a qualunque altra fonte da un assistente AI e anche dal pubblico: il rischio è che una breaking news venga sintetizzata in poche righe indistinguibili, pescate da mille fonti, tutte più o meno equivalenti. Ma per le testate (e le persone) che sono anche brand New York Times, Financial Times, Il Post, Internazionale, Bloomberg il valore rimane: non tanto perché sono trovabili, ma perché sono riconosciute. E quindi possono essere citate come fonte primaria. In questo contesto, le newsletter diventano canali diretti, forse i più solidi, per mantenere il contatto con un pubblico che ancora desidera “scegliere la fonte”, anziché ricevere una sintesi neutra.

Perché la fiducia è il punto debole della AI, e la reputazione è il punto forte del nuovo modello di web.

La morte della pagina web, insomma, non sarà uniforme. Colpirà a morte certi settori, risparmierà altri, e darà forse nuove opportunità a chi saprà disegnare esperienze informative che vanno oltre la logica del clickbait, della SEO e dei banner. Conviene prepararsi.

Non è la fine di internet, ma è (sarà, lentamente) la fine di quell’internet.

Come sempre, il futuro sarà di chi saprà cambiare pelle prima di doverlo fare. Come nella SEO degli anni Duemila, arrivare primi può significare alloggiare meglio.

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