Brand activism e Pinkwashing: qualche riflessione
l'opinione di
Per pensare a un impegno concreto e costante a supporto delle tematiche sociali
È da poco passato il 25 novembre, la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Come ogni anno, viene da chiedersi: quanto le iniziative delle aziende legate a questa ricorrenza riflettono un impegno concreto e continuativo su un tema così importante? E quanto invece si limitano a essere azioni sporadiche, destinate a essere dimenticate fino al prossimo appuntamento, solitamente l’8 marzo?
Questa riflessione tocca il cuore di un fenomeno sempre più rilevante: il brand activism (presa di posizione da parte delle aziende su questioni sociali, ambientali e politiche).
Alle aziende oggi viene chiesto di prendere una posizione pubblica su questioni sociali, politiche e ambientali, per contribuire a promuovere un cambiamento della società.
Se le persone scelgono un brand non solo per gli attributi del prodotto o i suoi benefici funzionali, ma anche come affermazione della propria identità, impegnarsi in cause importanti consente alle aziende di instaurare un legame più profondo con i consumatori, perché basato sulla comunanza di valori e quindi destinato, idealmente, a durare più a lungo.
Questo impegno, se autentico, non solo rafforza la fedeltà alla marca, ma rappresenta anche un vantaggio competitivo. Differenziarsi attraverso una presa di posizione su temi rilevanti per la società migliora infatti la reputazione aziendale e genera un impatto positivo che va oltre il semplice profitto.
Non sorprende quindi che molte aziende abbiano abbracciato il brand activism con dichiarazioni pubbliche, campagne di comunicazione, offerte di prodotti che riflettono determinati valori e il sostegno a movimenti sociali.
Tuttavia, per evitare accuse di opportunismo, è fondamentale che ogni iniziativa parta dai valori dell’azienda e dalla sua brand essence: il significato emotivo e profondo che il marchio assume nella vita delle persone. Quando manca questo collegamento, il rischio è di scivolare in comportamenti percepiti come superficiali o contraddittori. In questi casi, le aziende vengono tacciate di greenwashing (ambientalismo di facciata, ndr), rainbow washing (supporto di facciata alla causa LGBTQIA+, ndr) o, nel contesto delle iniziative legate al 25 novembre, di pinkwashing.
Nello specifico, il pinkwashing si verifica quando un’azienda promuove superficialmente i diritti delle donne con il solo scopo di migliorare la propria immagine, senza un reale impegno. I segnali più comuni includono:
- Superficialità: campagne basate su slogan generici, utilizzo temporaneo del colore rosa o a simboli femministi, senza un reale supporto alle cause femminili.
- Contraddizioni: promuovere iniziative a supporto del genere femminile, senza praticare l'equità di genere all’interno dell’azienda.
- Temporalità delle iniziative: interventi concentrati in date simboliche, come l’8 marzo (la Giornata internazionale della donna, ndr), che scompaiono rapidamente una volta calata l’attenzione mediatica.
Per evitare di cadere nella trappola del pinkwashing, i brand dovrebbero:
- Allineare le azioni ai valori: assicurarsi che le iniziative siano autentiche, continue e integrate nelle attività aziendali, anziché limitarsi ad attività temporanee.
- Comunicare in modo trasparente: ammettere eventuali carenze negli sforzi per la diversità e l’inclusione, costruendo così fiducia con il proprio pubblico. I consumatori non si aspettano la perfezione, ma apprezzano l’onestà.
- Agire con autenticità: sostenere le cause femminili con iniziative rivolte sia all’esterno sia all’interno, attraverso politiche inclusive che abbiano un impatto reale.
Le accuse di pinkwashing non si limitano a danneggiare l’immagine di un’azienda, ma possono avere ripercussioni dirette sulle vendite e sulla fiducia dei consumatori. Una reputazione compromessa richiede anni per essere ricostruita e può pregiudicare il legame emotivo che i consumatori hanno con il brand.
Probabilmente qualcuno di voi ricorda episodi specifici avvenuti in passato; se così non fosse, basta chiedere a Google.
In questo periodo di bilanci di fine anno e propositi per il 2025, i brand hanno l’opportunità di riflettere su quali cause possano supportare in modo autentico, tenendo sempre presente che l’impegno reale va oltre le date simboliche e le azioni mediatiche e che i veri cambiamenti si costruiscono anche a riflettori spenti.