consumi

Il futuro del food online è nel non food?

l'opinione di

Gianluca Diegoli

Prestazioni poco brillanti per gli acquisti alimentari online, ma grandi performance per il non food e per il food specializzato

Un settore disomogeneo

Durante la presentazione dei dati 2024 sul commercio online al Netcomm Focus Food & Grocery, qualcuno nella grande distribuzione potrebbe aver pensato “mal comune mezzo gaudio” osservando il calo di quasi un punto percentuale delle vendite online alimentari rispetto all’anno scorso, risultato anche delle prestazioni non brillanti delle app di e-commerce del settore. Ma, come al solito, è nelle pieghe dei dati che si trovano indizi interessanti. Sarà la crisi, sarà l’incertezza, saranno i costi di consegna e della logistica, certo. Ma guardando le vendite, questi fattori non sembrano impattare tutti i comparti allo stesso modo. Perché il totale del fatturato del settore cresce del 6,2%, mentre il solo cibo online ne perde l’uno? Chi è che sta contro bilanciando lo stallo del food “mainstream”? La piega del dato sta nel fatto che l’e-commerce alimentare (spesa alimentare, enogastronomia e delivery) è ormai fermo da anni al suo target di elezione: è una cosa che riguarda i millennial (30-45) residenti principalmente in città del Nord. La provincia ne è quasi del tutto esclusa, per mancanza di offerta, di domanda o di entrambi i fattori. Del resto, il prezzo medio più alto del 4,6% per gli acquisti di spesa settimanale online filtra il target disponibile – alto spendente, con poco tempo e poca volontà di perderlo nel traffico, a causa del lavoro e dei figli.

La rivincita del non food (o il food specializzato)

Se andiamo invece a leggere le categorie che hanno performance superiori alla media spuntano subito il pet care (+12,4%), il personal care (+12%) e a seguire home care (+6,6%) e bevande non alcoliche (+4,9%). Il settore food & grocery è vasto e diversificato. Ciò che prima veniva indicato genericamente come “non food” è ora protagonista online, spesso su piattaforme diverse da quelle della grande distribuzione. In Italia e nel Sud Europa, solo il 27% delle persone ordina cibo a domicilio, in media otto volte all’anno, frenate dai costi del servizio. Al contrario, sono molto più inclini ad acquistare online nei settori in cui trovano convenienza, specializzazione e offerte personalizzate. Online oggi si può comprare cibo “su misura” per il proprio animale in siti (che a volte sono anche negozi, e gestiscono le vendite in ottica omnicanale, ottimizzando con il singolo cliente al centro delle strategie) che combattono sul prezzo con i negozi. Si può scegliere un catalogo infinito di prodotti di alimentazione “funzionale” o “salutare” e uno sterminato numero di produttori di integratori di qualsiasi tipo (anche liquidi, il che può spiegare l’aumento delle bevande non alcoliche) per qualunque tipologia di obiettivo personale: dimagrimento, salute, palestra. O al contrario siti che offrono solo snack americani di dubbia salubrità. Spesso come “frontman di questi marchi non c’è più un brand produttore, ma un personaggio, un creator, qualcuno che si è creato, attraverso contenuti, una sua reputazione e un suo seguito di follower. Questo bacino viene usato per vendere prodotti food e non-food che vengono creati su misura per il pubblico di Instagram e TikTok). Questi marchi non producono direttamente, ma come accade per le private label, i prodotti escono dagli stabilimenti dei terzisti specializzati nella subfornitura alimentare e no.

Non parliamo poi del settore del personal care (più spesso chiamato beauty, skincare, ecc.). È la industry che ha visto sbocciare online la maggior parte dei brand indipendenti e direct-to-consumer, che si sono appoggiati come surfisti sulle onde dei trending topic social (temi di tendenza nei social media, ndr). Perfino l’enogastronomia sfrutta la segmentazione di prezzo e la difficile reperibilità di alcuni prodotti per crescere (+12% di acquirenti), come si era già visto peraltro alla Ecommerce Food Conference 2024. Il food tradizionale non gode certo di questo trattamento di favore da parte di influencer e creator, e quindi i suoi progressi sono quasi solo legati a un mero calcolo di convenienza del consumatore, che infatti indica come driver preferiti le “ridotte spese di consegna” (30,8%), l’efficienza nei servizi di delivery (25,4%), semplicità e agilità nell’esperienza d’acquisto (25,1%) e un pragmatico “abitudine” (26,6%). In pratica, il retailer di food tradizionale è valutato esattamente come fosse un servizio di logistica ma con sopra il logo di un supermercato, anziché quello del corriere espresso. Del resto, la spesa alimentare è ancora oggi più influenzata dall’offline - dallo scaffale fisico - che dall’online, unico settore in assoluto.

Le prossime mosse

Vista l’aria che tira, la GDO ha cominciato a proporre anche online sempre di più la propria marca, la cosiddetta private label, a discapito dei grandi brand ancora più che dei brand minori, con questi che vengono “salvati” probabilmente per mantenere un piede nella coda lunga della domanda che altrimenti si perderebbe nei rivoli dei negozi specializzati della rete. I grandi brand, del resto, si presume saranno i più disponibili per essere inseriti nei programmi di retail media - a pagamento, s’intende. Nonostante qualcuno continui a preannunciare grandi aumenti di qui al 2030 negli acquisti online di cibo, in Italia la stagnazione geografica e demografica della spesa settimanale e il brusco stop del delivery urbano non consentiranno di soddisfare queste promesse, almeno nel breve e medio periodo. Gli investitori nell’online stanno ormai guardando altrove, verso quei prodotti che fino a poco tempo fa, offline, non suscitavano certo l’interesse vivido dei category manager delle catene al dettaglio. Bibite energetiche, non food vario e specializzato, cibo funzionale, casa, beauty, pet sono le nuove terre promesse dell’e-commerce. Non è detto che lo siano anche per la GDO online