La sedia del cliente
l'opinione di
“Sei un nuovo cliente? Ti chiamiamo noi! Sei un cliente esistente? Chiamaci tu!”. Non ricordo chi lo scrisse in un libro, ma dopo anni è una “battuta” ancora tristemente vera.
Poco distante dallo scintillio delle evoluzioni tecnologiche nell’area del customer care (unificazione del dato in logica omnicanale, chatbot e operatori aiutati dall’intelligenza artificiale (IA) -, analisi dei feedback con l’IA, raccolta di dati di sentiment in rete, ecc.) serpeggia quello che, a mio parere, è l’elefante nella stanza di ogni incontro sul tema e di molti board aziendali: quanto davvero il cliente è presente – cioè tenuto in considerazione – nelle organizzazioni italiane?
La mitologia del business attribuisce al genio di Jeff Bezos l’assegnare una sedia in più a ogni riunione: quello era il posto che doveva essere lasciato libero per il cliente. “Lui vi guarda, lui decide”, sembrava suggerire il fondatore di Amazon con la mossa simbolica ma potente.
L’esempio non sembra essere seguito da buona parte delle aziende italiane: un dato abbastanza stupefacente emerso dal convegno “Customer Management
Excellence? Impossibile senza l’omnicanalità”, promosso dall’Osservatorio Omnichannel Customer Experience del Politecnico di Milano, è il numero di organizzazioni che hanno già riorganizzato il customer care in logica omnicanale: solamente il 3%. L’omnicanalità, per inciso, non è il futuribile metaverso, è questione di oggi, forse già di ieri, consolidata nei percorsi di consumo e ancora di più nel journey post acquisto di chi acquista, online oppure offline in modo indistinto.
Il problema di fondo sembra essere il valore attuale e futuro del cliente esistente, ancora spesso non calcolato o sottovalutato. Ancora più spesso semplicemente vittima dei sistemi incentivanti delle vendite che tendono a privilegiare le nuove acquisizioni – questo fenomeno peraltro in modo chiaramente omnicanale: che sia il digital, la forza vendita o il punto vendita, molto spesso il sistema premiante spinge a concentrarsi sull’acquisizione di nuovi clienti, a scapito (perché le risorse non sono infinite) dei clienti acquisiti.
Da anni in ogni convegno si ripetono affermazioni come “acquisire un cliente costa più che mantenerlo”, o ”un cliente fedele genera un profitto più elevato”, affermazioni derivanti dal famoso articolo della Harvard Business Review del 2014, il quale decretava:
“A seconda dello studio in cui credi e del settore in cui operi, acquisire un nuovo cliente è da cinque a 25 volte più costoso che mantenerne uno esistente. Ha senso: non devi spendere tempo e risorse per trovare un nuovo cliente, devi solo mantenere felice quello che hai”.
Eh, si fa presto a dire “solo”, soprattutto nel 2023, con aspettative elevate e infedeltà del consumatore diffusa. E inoltre, come tutte le generalizzazioni, è stata ampiamente smentita da altri studi, a partire dal filone australiano di Byron Sharp (“How Brands Grow”) che indicavano come la fedeltà del cliente (e quindi il customer care), non fosse in molti casi poi così importante nel diventare leader di mercato. Nel libro Sharp sfida la credenza che acquisire un cliente sia più costoso che mantenerne uno esistente. Egli sostiene che il costo di acquisizione dipende dal numero di clienti potenziali e dalla loro probabilità di acquisto, mentre il costo di mantenimento dipende dalla frequenza di acquisto e dalla fedeltà intrinseca dei clienti esistenti (e di quel settore). Sharp afferma che non esiste una regola generale che stabilisca quale sia più economico tra acquisizione e mantenimento, ma che dipende dal contesto specifico di ogni mercato e marca.
È chiaro che, in mancanza di una attenta, e necessariamente ad hoc, analisi del customer lifetime value, e dell’importanza della customer relation nel processo di retention (ma anche nel modello di business), non si può valutare se ogni singola azienda sta spendendo troppo poco (probabile) o troppo (più difficile, ma non impossibile) nel rapporto con il proprio cliente esistente in relazione all’ottimizzazione dei propri margini operativi.
In questo probabilmente andrebbe pesata l’importanza di ogni fase del rapporto azienda-cliente evidenziate dall’analisi del Politecnico di Milano:
- Coinvolgere il cliente nel design dei touchpoint.
- Supporto one-to-one post vendita.
- Monitoraggio dei KPI della customer relation.
Oggi è in ogni caso possibile “svolgere i compiti” con una pletora di strumenti a un relativo basso costo assoluto, grazie a piattaforme in cloud as a service e all’ausilio vario della onnipresente IA. È dunque possibile coinvolgere il cliente nella fase di progettazione delle interfacce online o del servizio a costi inferiori ai famigerati focus group di decenni fa usando prototipi e test digitalizzati e remoti. È possibile monitorare la soddisfazione con strumenti come survey via email a una frazione del costo delle survey telefoniche o delle ricerche di mercato. È possibile superare l’impasse dei terrificanti centralini telefonici automatizzati e delle attese, ormai anacronistiche e inaccettabili dai clienti, attraverso interfacce vocali potenziate dalla IA, in grado di rispondere direttamente.
Il punto chiave però è – ribadisco – determinare qual è il vero rapporto costi benefici sul proprio modello di business. Il Politecnico di Milano suggerisce giustamente di valutare l’incremento ricavi, il miglioramento della brand awareness, la riduzione dei costi, l’incremento della satisfaction, l’incremento della loyalty. Sfortunatamente, al momento della firma dell’investimento in nuova tecnologia, specialmente così impattante anche sul modello organizzativo, queste misurazioni e soprattutto la loro incrementalità effettiva sui risultati non sembra essere alla portata di mano della maggior parte delle organizzazioni, sia per problemi storici (si discute da decenni sulla misurazione dell’impatto della brand awareness) che per i noti ritardi nell’introduzione di pratiche di management che sfruttino il modello data-driven.
Anche misurare l’aumento di fatturato grazie a pratiche di customer service “proattivo e personalizzato” (cioè “contemporaneo”) non è immediato, prima dell’investimento, perfino operando in una logica di proof of concept o di test limitati. Alla fin fine, la riduzione dei costi della customer relation è sempre la motivazione più misurabile. Che potrebbe però a sua volta andare far deragliare la strategia aziendale e farci ripartire da dove eravamo partiti: il punto non è risparmiare in sé per sé, è calcolare il ROI di questa trasformazione, spesso un ROI con effetti nel lungo periodo. In attesa di comprendere come prevedere il ritorno dell’investimento, però, ogni brand dovrebbe capire – almeno – quanto è lontano dalle aspettative che il cliente si è fatto, e riempire, un passo alla volta, quella distanza. E considerare che difficilmente sono stati i costi di un ottimo customer care a mettere in pericolo i risultati aziendali.
Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it