Circolarità e lotta allo spreco nella rivoluzione del cibo
Al recente convegno Green Retail Lab di Retail Institute si indaga su quanto sia imprescindibile la sostenibilità alimentare per il largo consumo, come parte di quella ESG, in cui la gestione degli sprechi e l’economia circolare sono elementi fondamentali
Non c’è occasione di confronto pubblico della business community in cui la sostenibilità non entri a forza nel dibattito, sia perché è diventata un’urgenza globale, sia perché sono mutati gli atteggiamenti e i pensieri delle persone e delle aziende, sia perché gli eventi climatici sono lì a ricordarci tutti i giorni dove ci stiamo consapevolmente dirigendo.
Non sfugge a queste premesse il Green Retail Lab di Retail Institute che, nell’ultimo incontro, affronta il tema nel particolare ambito del sistema dei consumi. Con una premessa fondamentale: che, come afferma Paolo Marcesini, direttore di Italia Circolare, affrontare la sostenibilità nella sua complessità è un percorso pieno di inciampi, di paradossi, di dubbi, anche di contraddizioni. Che non devono trasformarsi però in alibi per ridurre l’impegno e l’attenzione.
Secondo il 26° Annual Global CEO Survey di PwC:
- Il 34% dei capi d’azienda nel settore consumer afferma che proseguendo nella direzione attuale la propria azienda non sarebbe economicamente sostenibile tra 10 anni.
- Il 27% sostiene che le azioni da intraprendere per essere sostenibili economicamente sono rivolte all’innovazione di prodotti o servizi climate friendly.
- Il 54% sta iniziando a sentirsi fortemente esposto nei costi e nell’intera supply chain.
Inflazione, cambiamento climatico e conflitti sono le maggiori preoccupazioni che portano quasi l’80% dei ceo a credere che la crescita economica globale diminuirà nei prossimi 12 mesi. L’inflazione naturalmente è in cima ai pensieri anche dei consumatori condizionandone il potere d’acquisto, tanto che il 70% ha limitato (28%) o eliminato (42%) le spese non essenziali. Da parte loro le imprese di fronte alle minacce geopolitiche e all’inflazione sono orientate a ridurre le spese di gestione (92%) e a riconfigurare la supply chain (73%). Oltre che a ricercare fornitori alternativi (e nuovi mercati. E ad aumentare i prezzi dei prodotti e dei servizi.
Figura 1 – Come rispondono i ceo globali alle principali minacce geopolitiche e all’inflazioneFonte: PwC “26th Annual Global CEO Survey – Consumer Goods” 2023
«Quanto al cambiamento climatico, paradigmatico – spiega Omar Cadamuro, partner di PwC Italia – è l’agroalimentare, tra i principali settori che impattano l’ambiente con il 26% delle emissioni totali, il 70% dei prelievi d’acqua, la destinazione del 50% del territorio, ma che è anche il più colpito dagli eventi climatici estremi. Diventa centrale quindi recuperare sprechi e perdite nella filiera alimentare, che ammonta a circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo a causa di ritardi e inefficienze nella raccolta, distribuzione e vendita al dettaglio, responsabili anche del 6% delle emissioni di CO2 agricole. Lavorando sull’efficienza della supply chain prima del consumo e riducendo le perdite di filiera al 10% dall'attuale livello, si consumerebbe il 23% in meno di suolo e, con l’agricoltura di precisione, si ridurrebbe il consumo d’acqua del 30%».
Di contro, la “mucca in corridoio” è l’impossibilità di fornire nel 2050 proteine a 10 miliardi di esseri umani e per questo motivo non deve venire meno, secondo Cadamuro, l’impegno a monitorare e investire sull’innovazione, di cui si vedono già molti esempi, come l’agricoltura verticale, la carne a base vegetale, gli insetti, il cibo stampato in 3D.
Dimensione antropologica dell'offerta
Per questo motivo si sta parlando sempre di più di sostenibilità nutrizionale, accanto ai pilastri classici ESG (ambientale, sociale e di governance).
«Ci avviamo a una vera rivoluzione del cibo – commenta Franco Fassio, professore associato all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo – i cui punti focali sono le azioni per rigenerare il capitale naturale a causa dell’omologazione e della standardizzazione dell’offerta, la coevoluzione uomo-pianeta, la ciclicità superando il concetto di rifiuto, il capitale umano inscindibile da quello economico, l’innovazione in un unico sistema interconnesso. È una rivoluzione in cui il retail svolge un ruolo centrale perché può e deve preoccuparsi di promuovere un’alimentazione bilanciata per il benessere e per il pianeta. La domanda che deve porsi il retail è: qual è lo stile di vita che sto vendendo? E la sfida è riuscire a dare una risposta aggiungendo una dimensione antropologica e culturale ai prodotti che offre».
Ci sta provando Carrefour, che della transizione alimentare per un’alimentazione sana e sostenibile per tutti ha fatto il fulcro della sua strategia d’impresa, che tra i pilastri prevede anche la lotta allo spreco alimentare e la circolarità, con obiettivi sfidanti, come ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 50% e del 70% entro il 2040, impiegare solo imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili entro il 2025 per i prodotti a marchio, ridurre entro il 2025 del 50% lo spreco alimentare rispetto al 2021 Per quest’ultimo aspetto le azioni intraprese riguardano la gestione degli assortimenti con l’intelligenza artificiale, la vendita a prezzi convenienti delle confezioni di ortofrutta danneggiate, la creazione di vasche antispreco per prodotti vicini alla scadenza al 50% del prezzo di vendita e di corner dedicati ai prodotti oltre il Tmc (termine minimo di conservazione, la data fino alla quale tale prodotto conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione) con sconti del 70%.
«Poiché il cliente del futuro – afferma Giorgio Santambrogio, vicepresidente di Federdistribuzione – sceglierà le insegne di riferimento sempre più in base all’empatia valoriale, i valori diventano variabile competitiva. Come Distribuzione dovremo essere più bravi nelle pratiche valoriali. Certamente le aziende stanno facendo bene, ma non è sufficiente. In tema di spreco alimentare, non è più tempo di romanticismo, occorre strutturare meglio metriche e competenze e bisogna industrializzare anche il terzo settore perché la sostenibilità alimentare ha bisogno di persone competenti nello scaricare a valle in maniera sistemica i diversi processi».
Una necessità sentita anche da Barilla, primo donatore per quantità del Banco Alimentare, come spiega Andrea Belli, media and external relations dell’azienda: «La gestione delle donazioni dei prodotti, che non dimentichiamo nascono dallo squilibrio della capacità previsionale di produzione e vendite, hanno immediati riflessi sull’immagine e sulla reputazione dell’azienda. Da qui un’attenzione maniacale alla governance di questi processi, con la tracciabilità a monte e a valle e l’integrazione del sistema gestionale tra noi e il Banco Alimentare. La sfida per noi è avere interlocutori affidabili e competenti e una governance restrittiva anche per portare valore aggiunto alle comunità locali: per questo ci sono programmi di educazione alimentare e di formazione HACCP (formazione in materia di igiene e sicurezza alimentare) con il Banco per portare le nostre competenze ed esperienze a questi player, oltre all’apertura al pubblico, alle sigle sindacali, alle sinergie tra gli operatori locali e la nostra filiera. Si è leader non solo per quota di mercato ma anche per la responsabilità di essere apripista e antesignani con la speranza che altri seguiranno».
Misurare per agire
La necessità di disporre di sistemi di misurazione fin dall’inizio dei processi è il punto di partenza per l’economia circolare. «La misurazione della circolarità – spiega Filippo Corsini, ricercatore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – rappresenta un requisito imprescindibile per l’attuazione del percorso di transizione da un modello economico prendi, produci e getta verso un modello avente l’economia circolare come paradigma di riferimento. Si fonda in sostanza sul monitoraggio di aspetti fisici, economici e sociali dei sistemi di valori di volta in volta presi in esame al fine di acquisire informazioni utili a identificare gli ambiti di miglioramento e stabilire nuove priorità».
Il ricercatore identifica quattro fasi per avviare un percorso di economia circolare:
- Identificare gli obiettivi.
- Focalizzare le aree principali selezionando le strategie da implementare.
- Mettere in atto le strategie.
- Monitora le strategie.
Un esempio in tal senso è il tool Circol-UP, sviluppato da GS1 Italy in collaborazione proprio con la Scuola Sant’Anna di Pisa dedicato al settore del largo consumo e del retail che costituisce il primo passo per la misurazione delle proprie performance di circolarità e per individuare i punti di forza e gli ambiti di miglioramento, con l’aiuto anche di una serie di best practices di altre aziende.
Per saperne di più su Circol-UP visita la pagina dedicata. Mentre per conoscere qualche case history, leggi Le aziende del largo consumo misurano la loro circolarità.
Ma c’è una distinzione importante che sta avanzando nella consapevolezza delle imprese: quella tra economia circolare ed economia del riciclo, intendendo la prima come “una parte essenziale di una più ampia trasformazione dell'industria verso la neutralità climatica e la competitività a lungo termine” come recita il Circular Economy Action Plan 2020 della Commissione europea di cui la riduzione dei rifiuti degli imballaggi è parte fondamentale. «Il riciclo invece – sottolinea Andrea Urbinati, director of the center on technology innovation and circular economy Liuc Business School – deriva da uno squilibrio economico tra mancanza di risorse e aumento di rifiuti: più prodotti, più rifiuti, più riciclo».
Questa distinzione è al centro della proposta di regolamento sugli imballaggi in corso di definizione presso la Commissione europea, che tante obiezioni e contrarietà sta sollevando in particolare in Italia che nel corso degli anni ha raggiunto il primo posto in Europa per riciclo dei materiali da imballaggio superando già dell’8% e del 3% il target europeo al 2025 e al 2030 (tranne che per gli imballaggi di plastica).
La proposta dell’Unione europea parte dalla considerazione che ogni cittadino europeo genera 180 chili di rifiuti da imballaggio all’anno e che il 40% della plastica e il 50% della carta utilizzati nell’Ue sono destinati all’imballaggio. Senza azioni, ci sarebbe un aumento del +19% dei rifiuti da imballaggio entro il 2030 e del +46% per i rifiuti di packaging in plastica. Nelle sue linee guida la proposta di regolamento considera di:
- Ridurre i rifiuti da imballaggio per ogni stato membro del 15% al 2040
- Privilegiare l’economia circolare nella gerarchia dei rifiuti, favorendo la prevenzione, la riduzione, il riutilizzo e il riciclo di qualità (upcyling).
- Fissare target quantitativi e verificabili per la prevenzione e il riciclo.
A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab