Fine spesa ad personam
l'opinione di
Fidelizzare i clienti anche alla cassa, offrendo esperienze personalizzate - e diverse - ai velocisti solitari e ai conversatori sociali
Le stime non ufficiali dicono che tra dieci e 30 miliardi di scontrini vengono emessi ogni anno in Italia, di cui buona parte emessi dai supermercati. Potremmo dunque affermare con tranquillità che “passare dalla cassa” è una delle esperienze più comuni dei consumatori, e forse anche quella che più viene vista in modo totalmente diverso a seconda del tipo di acquirente. La visione prevalente, almeno a scorrere i social media, è che sia considerato generalmente un momento di stress e insoddisfazione.
Di certo l’impatto che ha sul conto economico del retailer è rilevante: la cassa può essere considerata un male necessario, un costo da limitare il più possibile per preservare i margini del punto vendita. Del resto, la nascita del supermercato si può far datare nell’avvento del self-service, nell’eliminazione del banconiere factotum che “serviva” il cliente, incrementando così il numero di spese concomitanti possibili. Libero servizio, si chiama in gergo, in cui il risparmio di personale è patinato, appunto, di libertà di percorrere il supermercato come si vuole, finché si vuole.
Rimane però, da sempre, il problema della “fine” della spesa. Il momento del pagamento, del conteggio, dell’estrazione, dell’imbustamento (anche questa pratica, agli albori, era svolta dal cassiere, poi delegata anch’essa al cliente, spesso incalzato dalla velocità imbattibile del cassiere munito di self scan e ingombrato dalle scatolette del cliente seguente).
La cassa doveva essere limitata, se non eliminata: questo era il mantra del retailer di massa. Quindi sono apparse e progressivamente aumentate le casse self-service, però presidiate da inflessibili rilevatori anti-taccheggio, che danno sempre quel brivido di assoluzione-o-condanna quando li attraversi.
Ma il flusso di persone alle casse fisiche non sembra essere diminuito come speravano gli innovatori dell’automazione. Sarà perché, come scrive Michele Masneri su Il Foglio del 15 febbraio, “da noi, come al solito, abbiamo complicato le cose”? Scrive Masneri:
“Da noi molte catene di supermarket si sono dotate di casse automatiche, e tu devi, nell’ordine: togliere la roba dal carrello generalmente putrido, scansionarla, pagare, poi prendere dei sacchetti della consistenza di un ectoplasma (che sembrano solubili pure allo sguardo). Poi imbustare tutto. Sembra facile: ma spesso il lettore legnoso non “vedrà” parecchi codici a barre e, nella migliore tradizione mediterranea, a quel punto parlerà, e parlerà non l’inglese pragmatico della Silicon Valley ma l’italiano della burocrazia (“si è posizionato un prodotto nell’area di non vendibilità”). [...] Quando tutto il processo sarà andato a buon fine, dopo molti minuti vi sarà permesso pure di uscire dall’edificio, e ritornare alla vostra vita di sempre. A patto che la sbarra che si alza solo scansionando lo scontrino funzioni (perché il modello di automazione italiano prevede la presunzione di colpevolezza del cliente)”.
Probabilmente Masneri esagera un pochino, ma quella sensazione di “essere sotto osservazione” di fronte a una macchina dai toni poco amichevoli e spesso dai suoni lancinanti (sembra l’allarme antincendio e invece hai solo mancato un codice a barre) credo sia abbastanza comune. Conosco persone che sarebbero disposte a pagare di più per non essere costrette a passare sotto quelle forche caudine. Il service design delle casse automatiche lascia spesso a desiderare – traducendo Masneri – e sembrano più attente a non farsi rubare un pacchetto di caramelle che a facilitare la vita ai clienti.
Meno ansiogena è la modalità, parallela per introduzione nel mercato, “scansiona da te durante la spesa” (Salvatempo in Coop, Presto Spesa in Esselunga, ecc.). Anche in questo caso, però, la possibilità concreta di essere soggetti al temuto ricontrollo fa sì che molti preferiscano rinunciare. Il ricontrollo è infatti un disastro logistico e reputazionale: lo scanner suona, appaiono messaggi in tono secco “riconteggio, si rivolga alla cassa”, devi sopportare gli sguardi sadici di chi è tradizionalmente in fila alla cassa, che non sai se puoi superare o se devi metterti in fila dopo di loro. In più, l’imbustamento fin lì calibrato con cura (biscotti sopra, vino sotto) viene smantellato e passato sul nastro senza pietà.
A discolpa della GDO e dei suoi tentativi, dobbiamo dire che anche le tanto sbandierate rivoluzioni di Amazon e dei suoi negozi senza casse non sembrano poi aver avuto il successo sperato. Non c’è stata nemmeno la corsa ad accaparrarsi la – costosissima – tecnologia offerta in white label da Bezos e c. agli altri retailer. Eppure, in teoria le persone avrebbero dovuto apprezzare che il tempo per fare la spesa – cronometrato e comunicato dalla app di Amazon in una sorta di gamification contro se stessi – fosse così basso. Troppo fredda la “non-cassa” dotata di telecamere e sensori? Troppo inquietante e disruptive per l’esperienza a cui siamo abituati? Non lo sappiamo ma è interessante la notizia di questi giorni: Amazon sperimenterà (probabilmente) un modello di supermercato più tradizionale, cassa inclusa. Amazon va per tentativi come è nella sua missione, magari troverà un modo per migliorare l’esperienza alle casse senza apparire troppo creepy.
Tuttavia, forse il peccato originale sta proprio nel cercare un’unica soluzione a problemi e abitudini di persone molto diverse, come è nella norma per la grande distribuzione. Davvero tutti vogliono comprimere al massimo il tempo della spesa? Probabilmente no: chiunque faccia la spesa in un supermercato di provincia o di quartiere nota immediatamente come l’esperienza di acquisto sia parte integrante del valore, come quel perdere tempo abbia un suo perché, per chi lo pratica. E come questa esperienza di acquisto sia fornita in gran parte da interazioni umane, tra clienti e tra clienti e personale del negozio. KPI intangibili al conto economico, ma sicuramente fattori che non si possono ignorare, perché sono lì, ogni giorno, sotto i nostri occhi.
E se ci fosse un modo per superare le aspettative di queste persone, rinunciando a volerle espellere dal punto vendita il prima possibile come vorrebbero i modelli economici puri? Casse “lente”, dove puoi fare due chiacchiere, anzi devi, sennò la cassiera ci rimane male, sono state introdotte e amate in alcuni supermercati belgi e olandesi. Ma il concetto si può estendere a momenti e situazioni di aggregazione in-store in collaborazione con i clienti, le possibilità ci sono.
In fondo, in un settore che fatica a differenziarsi se non con la lotta all’ultimo sconto, fidelizzare i clienti creando valore specifico, differenziando i velocisti solitari della spesa dai conversatori sociali del carrello, potrebbe essere una soluzione. Anziché punti fedeltà o bollini, minuti di conversazione con il macellaio o la panettiera. Io ci penserei.
Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it