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Alla ricerca di una semantica per i novel food

l'opinione di

Manuela Soressi

Houston, nel mondo del food abbiamo un problema. Semantico. È la definizione dei nuovi prodotti che stanno già ridisegnando le nostre scelte quotidiane di acquisto e di consumo. E che promettono di farlo sempre più nell’immediato futuro.

Dal plant based alla carne sintetica, c’è un universo sempre più ampio di novel food che non ha ancora trovato le parole per presentarsi ai consumatori in modo coerente, accattivante e, soprattutto, positivo.

La sfida non è affatto facile, come sanno bene i guru del marketing, gli esperti di comunicazione e gli operatori del food & beverage. Occorre riuscire a raccontare i benefici di queste nuove categorie di prodotto in termini di sostenibilità ambientale ed etica, di spiegarne i vantaggi in chiave di nutrizione e benessere, ma anche di delinearne gli effetti sull’evoluzione della cultura gastro-alimentare e del gusto, in generale. Tanta roba, soprattutto da far arrivare a consumatori sempre più veloci, distratti e che chiedono prima di tutto di essere stupiti.

Ma proprio quest’esigenza di essere concisi ed efficaci nella comunicazione dovrebbe spingere a concentrare gli sforzi prima di tutto sulla definizione di questi nuovi prodotti, visto che è il nome a esprimere per primo (e a riassumere) l’identità e il senso di ogni cosa. Serve, dunque, trovare un tag nuovo e preciso per contrassegnarli in tutti i media.

Finora la strada più praticata è stata quella di partire dai prodotti alimentari comuni a cui i novel food si riferiscono e di presentarli come nuova tappa di un percorso storico di innovazione, proponendoli come alternativa “positiva” ai consumi tradizionali. Ma i tag “formaggio vegetale” oppure “carne vegana” hanno evidenziato dei limiti: dall’opposizione dei produttori delle filiere animali al divieto di usare termini tutelati dalla UE (come la parola “latte”).

Altri produttori hanno invece osato una comunicazione in “negativo”, stabilendo le distanze dal cibo comune e ponendosi come un vero e proprio sostituto, in nome di una produzione e di un’alimentazione più sostenibili e contemporanee. In questo caso il messaggio è chiaro e brutale: “non” siamo latte o yogurt, siamo altro. E qui la sfida è riuscire a raccontare in modo trasparente e comprensibile questo altro, anche per non provocare un disorientamento nel consumatore, che non aiuta l’ingresso definitivo di questi prodotti nel carrello della spesa.

In nessuno dei due casi, poi, si è arrivati a un discorso più alto, fino a stabilire una classificazione capace di abbracciare tutta la categoria, un po’ com’è avvenuto per l’etichetta “superfood”. Sebbene non abbia un significato così rigoroso, questo termine è stato subito percepito dai consumatori come sinonimo di alimento naturale e benefico. Quindi, ora il superfood potrebbe fare da apripista ad altre famiglie, come quelle dei “carefood”, degli “iperfood” o dei “flexifood”? Parliamone.

Manuela Soressi è giornalista professionista, esperta di consumi e food & beverage, consulente di comunicazione corporate, autrice di saggi.