05. L’Italia che lavora
Il riposizionamento latente: a chi conviene la de-globalizzazione? Il friend-shoring all’italiana
Nel 2021 il valore dell’export italiano ha superato i 600 miliardi di euro (516 miliardi le merci, 87 miliardi i servizi), corrispondenti al 33,8% del Pil. Per quest’anno si attende un aumento delle esportazioni per 70 miliardi di euro (53 miliardi per la sola componente dei beni). Ma ora si registra una decelerazione del commercio internazionale a causa della guerra russo-ucraina. L’Italia sembra avere già iniziato a perseguire una propria strategia di friend-shoring intensificando gli scambi con i paesi europei, con l’area nord-americana e con i paesi del Mediterraneo. Tra gennaio e luglio di quest’anno, l’export di merci verso l’Ue e il Regno Unito è aumentato del 22,9% rispetto allo stesso periodo del 2021 e quello verso i paesi Nafta (Canada, Stati Uniti e Messico) del 31,0%. Su 364,4 miliardi di euro di esportazioni italiane nel mondo, relative ai primi sette mesi di quest’anno, il 78,8% è di tipo friend-shoring. Considerando l’area del Mediterraneo, si aggiungono altri 23 miliardi, con un aumento del 30,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La ristrutturazione del sistema d’impresa accelerata dalla crisi energetica
A causa del caro-bollette, si stima che 355 mila aziende (l’8,1% delle imprese attive) potrebbero subire un grave squilibrio tra costi e ricavi. La gran parte (l’86,6%) si colloca nel terziario, una parte minore (il 13,6%) nel settore industriale. Le criticità interessano 3,3 milioni di addetti (il 19,2% del totale), di cui il 74,5% nel settore dei servizi (2,5 milioni di addetti) e il 25,5% nell’Industria (850.000 addetti). Se si verificassero gli esiti già osservati nelle passate ondate di crisi, sarebbero ancora una volta le microimprese a soffrire di più. Tra il 2012 e il 2020 le imprese attive si sono ridotte di 15 mila unità. Il saldo negativo deriva dal calo nella classe di addetti fino a 9 unità (-18.115), mentre le altre classi dimensionali presentano, all’opposto, saldi positivi, soprattutto nella dimensione 50-249 addetti (+2.225 imprese).
Il banco di prova della Pa, tra iniezioni di risorse umane e impulso al rinnovamento
L’occupazione nel settore pubblico (3.249.000 dipendenti) si è ridotta negli ultimi vent’anni di quasi 260 mila lavoratori. Siamo passati da 61,7 dipendenti pubblici ogni mille abitanti nel 2002 al minimo registrato nel 2013 (53,6 per 1.000), fino ai 55,1 ogni 1.000 residenti nel 2021. La Pubblica amministrazione ha dunque dovuto far fronte alle esigenze di cittadini e imprese con minori forze. In Italia il 13,7% degli occupati è impiegato dalle amministrazioni pubbliche, ma in Francia il 19,7%, in Spagna il 16,9% e nel Regno Unito il 16,4% (solo in Germania il rapporto è inferiore: l’11,1%). Nell’ultimo anno il costo del personale dipendente della Pa è stato pari a 166,8 miliardi di euro, ovvero il 10% del Pil. L’età media dei dipendenti pubblici sfiora i 50 anni: 6,5 anni in più rispetto al 2001. Attualmente il personale con 55 anni e oltre costituisce il 36,7% del totale e ‒ un dato ancora più preoccupante ‒ quello con meno di 35 anni è ridotto a circa il 10%, meno della metà rispetto al 2001. Anche l’anzianità di servizio media è aumentata negli ultimi vent’anni: da 16,5 a 17,5 anni. Grazie alle recenti stabilizzazioni del comparto scuola è aumentata la quota del personale con meno di 5 anni di anzianità di servizio (il 25,8%), ma si tratta per lo più di precari di lungo corso inseriti stabilmente in una macchina pubblica fortemente senilizzata.
Una spinta dall’oligarchia tecnocratica
Il personale dirigente della Pubblica amministrazione, dopo il minimo toccato nel 2017, si attesta oggi a 193 mila persone, il 3,5% in più rispetto al 2011 (mentre nello stesso periodo il resto del personale della Pa diminuiva dell’1,5%). Si conta un dirigente ogni 16 dipendenti pubblici. Si nota però un progressivo invecchiamento. Aumentano sia i dirigenti over 55enni (dal 41,0% del totale nel 2011 al 44,2%), sia nella fascia intermedia di 35-44 anni (dal 17,1% al 21,7%). Negli ultimi anni però sono in leggero aumento i giovani dirigenti, con meno di 35 anni (dal 2,5% del totale nel 2011 al 3,8%), rimanendo tuttavia mosche bianche all’interno della Pa. Aumentano i dirigenti con alte competenze, acquisite attraverso percorsi di specializzazione post-laurea e dottorati di ricerca, che pesano per il 46,7%. Nonostante sia ancora residuale la quota di cittadini che ritengono che la Pa funzioni molto bene (il 3,4%), è aumentata la quota di quanti si dichiarano parzialmente soddisfatti (il 40,2%). Ma oltre la metà degli italiani (il 51,5%) si dichiara ancora insoddisfatta. I principali motivi che causano il cattivo funzionamento della Pa, secondo i cittadini insoddisfatti, sono l’eccesso di burocrazia (31,4%), la scarsa motivazione del personale (29,2%), la cattiva organizzazione (17,5%) e l’interferenza della politica nelle nomine dei dirigenti (12,9%). Il 6,3% degli insoddisfatti indica come motivo principale del cattivo funzionamento della Pa il ricorso ancora limitato alle tecnologie digitali.