Intelligenza artificiale, tra clamori mediatici, barriere culturali e necessità
Un mercato ancora agli albori in uno scenario complesso caratterizzato da una scarsa consapevolezza delle opportunità offerte dall’intelligenza artificiale alle imprese. I risultati della seconda edizione dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano.
C’è grande confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente. La storica frase del presidente Mao si addice bene allo stato di adozione e sviluppo dell’Intelligenza artificiale (Ai) in Italia. Confusa sembra essere infatti la visione dell’Ai da parte delle imprese, eccellente perché, al di là del clamore mediatico, il ricorso all’intelligenza artificiale si configura come una vera e propria necessità nel quadro del sistema economico e sociale dei prossimi decenni.
Lungo queste due direttrici si sviluppa la ricerca dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano, giunto alla seconda edizione.
Preso atto che il mercato dell’intelligenza artificiale in Italia è solo agli albori – 85 milioni di euro la spesa per lo sviluppo di algoritmi – l’Osservatorio nota che vi sono altre componenti di rilievo, come lo sviluppo dei robot collaborativi in ambito industriale (145 milioni di euro) e la diffusione degli assistenti vocali in ambito domestico (60 milioni di euro), che spingono verso una «democratizzazione dell’Ai» (Serena Spalla, Vidiemme) e delineano aree di sviluppo rilevanti. I secondi in particolare possono essere in futuro un canale con il quale veicolare servizi e applicazioni innovative basati sulla voce. Si pensi per esempio al loro utilizzo per l’e-commerce.
Lo scenario applicativo
Tuttavia, allo stato attuale, la survey condotta su 151 grandi aziende operanti in Italia, consente di stabilire che la visione che le imprese hanno dell’intelligenza artificiale è ancora confusa, definendola in maggioranza (58%) come capacità di di emulare i processi cognitivi dell’essere umano. Il 35% del campione associa l’Ai a un gruppo di tecniche come il machine learning, solo il 14% ha compreso che l’Ai si caratterizza per lo sviluppo di sistemi dotati di capacità tipiche dell’essere umano e il 32% l’associa a uno dei suoi campi di applicazione (per esempio, assistenti vocali, veicoli a guida autonoma, estrazione di informazioni dalle immagini) dimostrando una conoscenza circoscritta del fenomeno. Ne risulta che sull’intelligenza artificiale siamo di fronte a uno scenario complesso dove prevalgono, ancora, i clamori suscitati dai media.
Non stupisce quindi che solo il 12% delle imprese intervistate abbia un progetto in corso, mentre quasi la metà non si sia ancora mossa ma stia per farlo (l’8% è in fase di implementazione, il 31% ha in corso progetti pilota e il 21% ha stanziato un budget).
Fig. 1 - Lo stato di avanzamento dei progetti di Ai
Fonte: Osservatorio Artificial Intelligence, Politecnico di Milano
Tra chi ha già in corso progetti di Ai, il 50% delle aziende ha come obiettivo prefissato il miglioramento dell’efficienza dei processi, cioè la riduzione dei costi, il 37% l’aumento dei ricavi ed il 13% lo sviluppo di soluzioni per un supporto decisionale. Solo il 4% dei progetti non ha raggiunto gli obiettivi, mentre il 68% dichiara che le iniziative hanno raggiunto l’esito sperato e, di queste, la metà lo definisce “di grande successo” o “disruptive”. Il rimanente 28% non è invece ancora in grado di dare un giudizio.
Tra i settori attivi nell’introdurre soluzioni di intelligenza artificiale, l’Osservatorio indica quello bancario, finanziario e assicurativo con il 24% delle applicazioni, l’energia e le utility con il 13%, quello automobilistico con il 10%, dove l’interesse prioritario è per i veicoli a guida autonoma, e il retail con il 9% delle applicazioni, interessato in particolare a offrire servizi personalizzati e flessibili alla clientela. Tutto ciò fa dire ad Alessandro Piva, direttore dell’Osservatorio Artificial Intelligence: «L’Ai non è solamente una bolla, ma un’opportunità reale per le aziende. Intraprendere un percorso di adozione di soluzioni di intelligenza artificiale è però un processo complesso sia nelle fasi iniziali dove è importante valutare i requisiti e il rapporto costi-benefici, sia in quelle finali dove è necessaria l’attività di change management, seguita dal rilascio e attivazione del progetto».
La maturità delle organizzazioni
Nel modello di Ai Journey messo a punto dai ricercatori dell’Osservatorio per valutare il posizionamento delle organizzazioni nel percorso verso l’adozione di soluzioni di intelligenza artificiale emerge un quadro dinamico e in evoluzione, seppure ancora poco maturo, nel quale vengono identificati sei profili di aziende.
Il 45% sono quelle "in ritardo", che dispongono di un’infrastruttura per l’acquisizione di dei dati, ma la loro qualità e quantità non sono ancora sufficienti per sviluppare un progetto di Ai. Il 10% sono “entusiasti”: sfruttano dati proprietari e si affidano a soluzioni standard offerte dal mercato. Il 23% sono le aziende "in cammino", che denotano buona capacità di dominare le metodologie di Ai, una crescente attenzione all’organizzazione e cultura aziendali e fanno i primi sforzi per preparare il cliente a prodotti e servizi Ai. Il 12% sono ‘apprendisti’, imprese cioè che, a differenza degli ‘entusiasti’. hanno investito per migliorare la qualità e quantità dei dati sfruttandoli per sviluppare algoritmi in modalità stand alone. Gli "organizzati" (4%) sono quelle imprese che invece hanno sviluppato maggiormente l’ambio organizzativo-culturale invece di quello tecnologico. Infine gli ‘avanguardisti’ (6%): sono le imprese più evolute, quelle che si sono mosse prima e sono più avanti delle altre.
Nel complesso le aziende italiane no appaiono ancora mature, prevedendo un approccio empirico che parte dai dati e prosegue con l’approfondimento di metodologie e algoritmi, è il giudizio dei ricercatori.
Fig. 2 - L’Ai Journey, la maturità in Italia
Fonte: Osservatorio Artificial Intelligence, Politecnico di Milano
Dalle analisi dell’Osservatorio emerge infatti che nello sviluppo di un progetto di intelligenza artificiale non sono poche le barriere all’adozione delle soluzioni. Secondo Claudio Arthur Alfieri, associate partner Reply sono essenzialmente tre: «Quelle di tipo culturale, la disponibilità di una mole importante di dati di qualità, la disponibilità a investire su tecnologie non ritenute ancora mature. Occorre un approccio modulare in una visione sistemica con la volontà di mettersi in gioco». Per Piero Poccianti, presidente Associazione italiana per l’intelligenza artificiale c’è bisogno di collegare la ricerca con l’industria: «Oggi aziende e ricerca parlano linguaggi diversi, sebbene la qualità di quest’ultima in Italia sia particolarmente elevata. Senza questa connessione, senza un linguaggio comune, i progetti di artificial intelligence sono destinati a fallire».
L’impatto sull’occupazione
Persistono, però, gli interrogativi riguardanti i riflessi dell’Ai sul lavoro e sull’occupazione. Secondo i risultati della survey, il 33% delle aziende ha avuto necessità di assumere nuove figure professionali per progetti di intelligenza artificiale, il 39% li ha attivati senza modificare l’organico, mentre il 27% ha dovuto ricollocare il personale.
Ma quali sono, al netto dei titoli dei giornali, i possibili scenari dell’uso dell’intelligenza artificale tra opportunità e minaccia al lavoro? Giovanni Miragliotta, direttore dell’Osservatorio Artificial Intelligence, non nutre dubbi: «È una necessità». Infatti incrociando diverse fonti ufficiali, lo scenario è quello, tra quindici anni, di un disavanzo di 4,7 milioni di posti di lavoro equivalente. Questo dato risulta dalla somma di due fattori.
Da un lato si passerà infatti dai 23,3 milioni di occupati e 12,3 milioni di pensionati attuali a 21,9 milioni di lavoratori e 14,5 milioni di pensionati. Il saldo demografico porterà così a perdere circa 2,9 milioni di lavoratori. Ipotizzando di recuperare 1,5 milioni di nuovo occupati dal saldo migratorio, si arriva a un deficit di 1,4 milioni. Dall’altro l'incremento delle aspettative di benessere e il fabbisogno di beni e servizi dovuta al saldo migratorio e al progressivo invecchiamento della popolazione genereranno un aumento della domanda di ulteriori 3,3 milioni di posti di lavoro equivalenti.
Estrapolando i dati di automazione potenziale delle attività svolte nelle varie categorie di professioni ed incrociando questi dati con la distribuzione della popolazione lavorativa e con la diffusione di applicazioni di AI nelle imprese italiane è ragionevole stimare che nel giro di 15 anni l'equivalente del contenuto di lavoro di 3,6 milioni di posti di lavoro in professioni come oggi le conosciamo potrà essere automatizzato, compensando in parte il disavanzo stimato, e contribuendo a mantenere gli standard di benessere a cui siamo abituati. Il grafico incrocia i dati di automazione potenziale delle attività nei vari settori con la distribuzione della popolazione lavorativa in Italia.
Fig. 3 - La potenzialità di automazione in Italia
Fonte: elaborazione Osservatorio Artificial Intelligence su dati McKinsey e Istat, Politecnico di Milano
Oltre al residuo di 1,1 mln di posti di lavoro non coperti, inoltre, le nuove tecnologie genereranno domanda per professioni completamente nuove, tracciando uno scenario rassicurante dal punto di vista dell'equilibrio domanda-offerta di lavoro.
Quale sarò poi l’impatto della progressiva automazione del lavoro sull’equilibro del sistema previdenziale? «Se si vogliono mantenere gli attuali livelli di benessere economico e sociale – spiega Miragliotta – va trovato un nuovo equilibrio complessivo. Nei prossimi anni sarà necessario pensare a una revisione del sistema contributivo, considerando che il lavoro non sarà più la principale fonte di creazione della ricchezza. E sarà necessario rivedere i sistemi di misura della ricchezza, arrivando forse a includere nuove grandezze come l’esistenza di meccanismi di formazione permanente, di protezione e sicurezza sociale, nonché la circolarità̀ dell’economia»
A cura di Fabrizio Gomarasca - @gomafab