I dettagli dell’innovazione nel retail
L’appuntamento con Ki-Best di Kiki Lab esplora l’innovazione nel panorama internazionale del retail. Un viaggio alla scoperta di che cosa fanno le grandi catene e i piccoli indipendenti per migliorare l’esperienza d’acquisto.
«Il retail ha fame di innovazione. Ma è molto complesso capire quale sia il giusto modo di innovare, quale sia l’equilibrio ottimale da ottenere nell’utilizzo delle tecnologie». Questa considerazione di Fabrizio Valente, fondatore e ceo di Kiki Lab, è alla base della costante ricerca sul campo svolta in anni di osservazione su e giù per il mondo, forte anche dell’essere membro di Ebeltoft Group, il network internazionale di 25 società di consulenza nel retail. Ogni anno Valente, tra l’altro, dà conto di quanto accade nei cinque continenti in termini di innovazione nel retail.
Nuove tecnologie, cum judicio
Certamente, la tecnologia è un potente facilitatore di tante soluzioni innovative, ma, ammonisce Valente: «Occorre fare molta attenzione per sviluppare un’efficace customer experience. Proprio la rivoluzione culturale nella quale siamo immersi porta a essere più veloci e selettivi nell’individuare le tecnologie vincenti, tenendo presente alcune previsioni che fissano al 2020 il tempo in cui l’85% delle interazioni sarà tra uomo e macchina e il 50% dei messaggi saranno vocali. Il machine learning, per esempio, ha un’impressionante capacità di sviluppo e già oggi i robot sono in grado di rispondere a domande complesse meglio di molte persone. Ma non dobbiamo per forza pensare che la tecnologia debba essere quella più nuova o pervasiva al cento per cento. Due esempi. Primark, che ha una politica di espansione rapida e una forte aggressività sui prezzi, non fa e-commerce, per il semplice motivo che, avendo una politica di prezzo molto aggressiva, non sarebbe in grado di rendere sostenibili i costi logistici. Quanto alle tecnologie, la radiofrequenza RFID sembra essere stata un po’ abbandonata, essenzialmente per i costi. Ma non da tutti. Zara utilizza un miliardo di tag all’anno per i suoi capi e Marks&Spencer ha ormai il 100% degli assortimenti provvisto di tag a radiofrequenza».
Nel presente-futuro del retail altre tecnologie sono in sviluppo, in un mix di intelligenza artificiale e robotica: il social commerce, in grado di creare occasioni di acquisto di impulso sui canali social, il programmatic commerce, evoluzione dei dispositivi dash, attraverso cui il web viene scansionato automaticamente e quando si trova un determinato prodotto a un prezzo definito viene acquistato direttamente e, infine, gli assistenti vocali come Google home e Alexa di Amazon appena lanciata anche in Italia, che hanno l’indubbio vantaggio non solo di abolire le interfacce tradizionali per la navigazione e nella ricerca, ma potranno avvicinare al web (e all’e-commerce) anche fasce di popolazione che non usano alcun dispositivo digitale.
Piccole grandi innovazioni
Nei casi selezionati per Ki-Best (oltre 50, ma qui ne riportiamo solo alcuni), al di là della necessaria suddivisione secondo le quattro aree dell’annuale ricerca Retail Innovations (emotional retail, interactions, responsibility, smart shopping), ciò che sta dietro l’idea vincente sono i dettagli. L’innovazione, quindi, come somma di dettagli che fanno la differenza.
Lo sono, per esempio il packaging 100% riciclabile della profumeria londinese Floral Street, o la condivisione di ombrelli della brasiliana Rentbrella che ha 27 chioschi in diverse location a San Paolo, così come la vendita self service di profumi da Tiffany, che dedica il personale a relazionarsi con il cliente per vendite di ben altro valore. Sardinha Portoguasa è riuscita invece, a reinventare il mercato delle conserve di pesce, disegnando per il proprio flagship un’ambientazione circense, ludica, dove vende le scatolette di sardine come souvenir a 7 euro l’una, solo perché viene evidenziato l’anno (dal 1912 in poi), che corrisponde all’anno di nascita dell’acquirente o della persona cui è destinato il regalo.
Non è tanto la scala, la dimensione, a essere importante, così come non lo è la differenza tra concept e soluzioni. Per esempio un colosso come Target, con 100 miliardi di dollari di fatturato e 1.800 punti vendita ha un approccio avanzato dal punto di vista assortimentale, che lo porta a creare partnership specializzate, come quella con Chobani, produttore di yogurt greci e turchi, è nella vicinanza della relazione con il cliente nel punto vendita attraverso il personale o con l’uso dello smartphone che costruisce l’emozionalità dell’esperienza d’acquisto. Per contro Pangea in Spagna è un’agenzia di viaggi che si è costruita un ruolo anche nell’era dell’e-commerce imperante per il turismo. Non solo perché il suo unico punto vendita a Madrid ha una superficie di 1.500 metri quadrati, il che ne fa la più grande agenzia di viaggi al mondo, ma perché riesce a personalizzare il 95% dei pacchetti viaggi dei tour operator. Naturalmente ha un’area caffè (ormai chi non ce l’ha?) e uno spazio self service con prezzo minimo garantito. Nel pacchetto per il fine settimana, poi, è inclusa un’auto Mini a noleggio. Così, Pangea sta per aprire un secondo punto vendita a Barcellona ancora più grande.
Dettagli sono anche quelli di Trader Joe’s, catena con 470 punti vendita negli Stati Uniti, di proprietà di Aldi, che rimborsa qualsiasi reso senza discussioni o della brasiliana Zissou che, nata per la vendita online di materassi di qualità, nel suo store di San Paolo ha allestito una stanza con illuminazione modulabile e colonna sonora gestita con Alexa di Amazon dove il cliente prova il materasso in tutta calma, schiacciando anche un pisolino. E ogni acquisto gode di un periodo di prova gratuita di 100 giorni.
«Il negozio fisico è destinato a cambiare verso una shopping experience completa per il cliente», afferma Marco Farnetani, retail e omnichannel director Bata Group, che ha in corso un programma di sviluppo e di transizione dei propri punti vendita verso l’omnicanalità.
Per rimanere in Italia, il percorso di Thun da produttore a retailer passa attraverso il controllo diretto della rete vendita monomarca e lo sviluppo dell’integrazione con l’e-commerce che già oggi vale il 4,5% del fatturato ma, riconoscendo la centralità del cliente, ha anche avviato un nuovo concept ibrido, Thun Café. Con le parole dell’amministratore delegato Paolo Denti, «Si tratta di una nuova unità di business focalizzata sulla somministrazione di cibo e bevande, che affronta un cliente diverso da quello tradizionale, nuovo nel 75% dei casi, che può anche incidentalmente acquistare un prodotto regalo. L’obiettivo è ambizioso: cento locali nei prossimi cinque anni». Nella trasformazione dell’azienda, che ha consentito di aumentare il fatturato negli ultimi tre anni rispettivamente dell’8%, del 12% e del 18%, un ruolo importante è quello della responsabilità sociale d’impresa. «Non potranno esistere in futuro aziende senza attenzione al sociale», sottolinea Denti rilevando che oggi l’azienda destina il 13% del tempo retribuito dei dipendenti alla formazione (2,5%), alla salute e benessere (2,5%), al team building (3%) e al volontariato aziendale (5%), che da solo assorbe un totale di 2.400 ore retribuite.
Responsabilità è anche il concetto fondante della brasiliana Galeria Melissa, con boutique a San Paolo, Londra e New York, che produce scarpe fashion realizzate da plastica riciclata al 100% o quello di Ecoalf, un progetto avviato ne 2009 che ha aperto il suo primo negozio nel 2012 a Madrid, per la vendita di abbigliamento prodotto inizialmente dal riciclo delle reti da pesca e dalle bottiglie di plastica e successivamente dai fondi di caffè, dagli scarti industriali di cotone e lana, dai copertoni usati. Oggi ha aperto anche a Berlino e sarà tra i partner nel futuro eco-store Green Pea di Oscar Farinetti.
A cura di Fabrizio Gomarasca