La Cina scopre i consumi e gli italiani perdono il treno
Secondo i dati della Fondazione Italia-Cina, l’export verso il paese asiatico nel 2015 è sceso del 12%. Le autorità cinesi hanno chiuso i rubinetti sulle importazioni dei macchinari e gli italiani ne pagano le conseguenze. C’è il lato positivo: i consumi cresceranno, ora bisogna attrezzarsi
Il dato è di quelli inattesi: -12% di export verso la Cina. Oltre che inatteso, è anche contrario a quello diffuso dall’Istat. Viene dalla Fondazione Italia-Cina, che lo ha messo nero su bianco nel suo rapporto 2016, partendo dai dati cinesi delle importazioni dall’Italia. Come mai questo calo? Perché le nostre esportazioni in alcuni segmenti si sono bloccate di botto. Non cominciamo a piangerci addosso o a invocare il “fare sistema”. Quello che è successo non dipende dalle imprese italiane, ma dalla Cina che ha chiuso i rubinetti. La questione non riguarda solo l’Italia, perché le importazioni cinesi sono scese del 14% nel 2015. Il fatto è che la Cina lo può fare, almeno per ora: quando decide che un proprio settore è strategico, aggiorna il suo catalogo degli investimenti esteri, che ha una lista di settori incoraggiati, ristretti e proibiti. Ne sanno qualcosa le imprese del meccano-tessile, che hanno visto crescere il mercato cinese per anni, finché nel 2014 hanno assistito all’abbassamento della saracinesca e a un crollo improvviso di un quarto del mercato. Nel 2015 le esportazioni dall’Italia alla Cina di macchinari e tecnologia nucleare, macchinari e attrezzature elettriche e articoli in metallo sono scese tra il 16 e il 18%, quelle dei mezzi di trasporto di quasi il 40 per cento.
Se ci sono state queste chiusure è perché il Paese sta cambiando pelle. È la nota “nuova normalità”, quella che nelle intenzioni del governo, certificate dal Tredicesimo piano quinquennale (2016-2020), sposterà sempre più gli ingredienti dell’economia cinese. Si passa dal modello fatto di investimenti pubblici ed export a uno fatto di consumi interni, più servizi e produzioni di maggiore qualità. Il Pil rallenterà, anche se la crescita media sarà del 6,5% da qui al 2020. Gli effetti del cambio di passo cominciano già a vedersi, con i servizi che nel 2015 hanno già passato il 50% del Pil, mentre i dipendenti del terziario hanno superato quelli dell’industria. Intanto l’urbanizzazione continua, ai ritmi più alti che l’umanità abbia mai conosciuto, e la robotica avanza spedita, così come il costo del lavoro (+200-300% tra il 2010 e il 2020).
«Il calo dell’export è paradigmatico del cambiamento del modello di sviluppo», spiega a Linkiesta Alberto Rossi, responsabile marketing della Fondazione Italia Cina e analista del CeSIF, Centro Studi per l’impresa. «Quando si dice che il modello cinese punta a una cosa e non a un’altra non si parla di un semplice intento, ma di misure concrete», racconta a margine del convegno di presentazione del rapporto, a Milano. In questo calo, aggiunge, «il catalogo degli investimenti incide molto sui settori in cui sono state decise delle restrizioni. È la fine della “golden age” di cui parlano in molti, che coincideva con le praterie per chi investiva in certi settori».
Il fatto è che, più che concentrarsi su quello che si è perso, ha molto più senso capire quali opportunità porteranno i nuovi cambiamenti. «Siamo nel pieno boom dei consumi in Cina e nessuna società con ambizioni globali può permettersi di ignorare il mercato cinese», scrive chiaro e tondo il rapporto. La popolazione cinese, 1,4 miliardi di persone, invecchia mediamente a tassi mai visti a causa della politica del figlio unico, la cui recente abolizione nel breve termine sposterà poco. Così, gli spazi per le imprese italiane che operano nel settore medicale (servizi, strutture per anziani, medicinali, macchinari) sono enormi, come ha sottolineato su Linkiesta Saro Capozzoli. Non solo: i dati della Fondazione dicono che i consumi non solo aumentano, ma crescono più velocemente per i beni non di prima necessità e in particolare da parte delle persone con un reddito medio-alto. Tradotto: ancora una volta si aprono praterie, questa volta per i marchi di lusso, dalla moda al vino.
E poi bisogna tatuarsi addosso la parola e-commerce. Chi non vende online, in Cina non solo è considerato un primitivo e si espone di più al rischio di copie. Perde un mercato dalle proporzioni quasi inimmaginabili. Basti pensare che nel solo ultimo “Single Day”, il giorno (11 novembre) ideato dal fondatore di Alibaba Jack Ma e dedicato alle offerte online, in Cina la spesa è stata pari a quella totale italiana in un anno. Le previsioni da qui al 2020 sono di passare dagli attuali 600 miliardi di euro a 1.600 miliardi di spesa online, con settori come l’elettronica di consumo che vedranno le vendite online superare quelle offline e un prodotto su quattro acquistato in rete. Già oggi la metà delle vendite online avviene tramite smartphone e il mobile commerce è quasi raddoppiato in un anno. Di fronte a questi cambiamenti drastici non c’è altra strada che guardare i dettagli, cambiare modello e farlo in fretta.
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A cura di Fabrizio Patti