La fabbrica del futuro e il mito del super-operaio
Il “blue collar” nelle industrie versione 4.0 è più forte o più debole? In un libro un ritratto a tutto tondo dei nuovi operai
Le fabbriche stanno cambiando e diventano più intelligenti, questo lo abbiamo capito. Ora è il momento di occuparci degli operai. La nebbia è fitta e il grosso del dibattito si è interessato finora del futuro dell’occupazione. Le ipotesi più pessimistiche, alla Andrew McAfee, ci hanno prospettato scenari in cui 702 tipi di lavoro, il 47% del totale sarebbero stati bruciati. Quelle più ottimistiche hanno invece parlato di una distruzione creativa da cui usciranno nuovi lavori migliori dei precedenti. Ma se dal macro si sposta lo sguardo verso quel che succede a chi nelle fabbriche ci lavora, le ricerche si fanno più rare e le riflessioni più generiche. Fino ad alimentare dei falsi miti. Come quello che le gerarchie siano destinate a sparire, che gli operai si trasformino in nuovi lavoratori della conoscenza e che le loro abilità si sviluppino fino a farli diventare dei super-operai. La realtà è più complessa e per indagarla un gruppo eterogeneo composto da una giornalista, una sociologa dei media, un ricercatore sui temi del lavoro, un dirigente sindacale e un economista industriale si è messo in viaggio. Hanno visitato le scintille delle saldature e le personalizzazioni estreme dei cantieri navali di Fincantieri. Le gabbie con i robot nella fabbrica nuova di zecca della Maserati, a Grugliasco. La catena di montaggio della Ferrari. Hanno parlato con gli operai della Ducati, visto all’opera i visori in 3D utilizzati per progettare i treni dell’Alstom e le stampanti per l’additive manufacturing della Avio Aero. E molto altro, su e giù per il vecchio triangolo industriale italiano e poco oltre. Il risultato è stato descritto nel libro "Industria 4.0 - Uomini e macchine nella fabbrica digitale" curato da Annalisa Magone e Tatiana Mazali.
Il risultato è una descrizione dettagliata e partecipata ma che non rinuncia a farsi delle domande. Due su tutte: il nuovo “blue collar” è più forte o più debole di prima? E con la necessità di trasformare le esperienze degli individui in informazioni replicabili, il nuovo operaio è più desiderabile per le aziende o più sostituibile?
A voler essere sintetici, le risposte sono che i nuovi operai sono sì “aumentati” nelle loro potenzialità ma non certo dotati di superpoteri. «Sanno di più ma sanno fare di meno», sintetizza Annalisa Magone, giornalista, presidente di Torino Nord Ovest, un centro di ricerca sul lavoro e l’innovazione e una delle due curatrici del volume assieme alla sociologa dei media Tatiana Mazali. I lavoratori sono, in altre parole, polivalenti e polifunzionali. Non si occupano più di un solo macchinario, né di una sola mansione. E cambiano spesso l’attività svolta. Tuttavia, hanno anche meno competenza specifiche sul funzionamento dei singoli macchinari. Non solo: la tecnologia tende a rendere meno importante la loro esperienza. È il caso dei sistemi a guida laser, che sostituiscono la mano esperta dei saldatori. Ed è il caso del montaggio dei treni: fino a qualche anno fa c’erano operai che costruivano il treno essenzialmente senza un disegno, «perché - si legge in una testimonianza dell’Alstom raccolta nel volume - l’operaio conosceva il treno, lo aveva sempre fatto e aveva ereditato una conoscenza. Possedeva la storia dei treni precedenti, dunque quando arrivava un nuovo ordine la parte di informazione mancante sapeva desumerla dalla propria esperienza professionale». Oggi, invece, scrive uno degli autori, il ricercatore Salvatore Cominu, «i supporti mediali che guidano il montaggio di un treno testimoniano una certa complessità delle operazioni: un lavoro meno parcellizzato, che presuppone quindi attenzione e adeguate informazioni, detenute dai tutor digitali prima che dagli operai». Qualcosa di simile succede, come raccontato da Linkiesta, nelle aziende dove ci sono dei proiettori a mostrare all’addetto cosa montare e dove, attraverso informazioni visuali di supporto.
Quello che è certo, invece, è che il lavoro cambia e che in questo cambiamento le cosiddette “soft skill” acquisiscono un’importanza centrale e non più di contorno. È il caso della “comunicazione”: «La differenza tra una fabbrica tayloristica e una 4.0 è che quest’ultima è una fabbrica comunicante» spiega Magone. Esiste un feedback costante relativo al funzionamento dei processi. Spesso è automatizzato (è la caratteristica principale dell’Internet delle cose applicato all’industria) ma alcuni compiti sono demandati agli uomini. Così gli operai che lavorano con il metodo “World Class Manufacturing” (Wcm), adottato da Fiat Chrysler, possono segnalare in continuazione le possibili anomalie. Le altre competenze richieste hanno tutte a che fare con la complessità. Ci sono quelle di tipo cognitivo, sollecitate quando si tratta di gestire molti macchinari e funzioni contemporaneamente. E c’è una terza “soft skill” che ha a che fare con il coinvolgimento degli operai nelle operazioni non più solo con le braccia e il tempo, ma con la testa e con il cuore. Se la complessità aumenta e problemi vanno risolti, non ci si può più come prima immaginare una separazione nettissima tra le otto ore lavorative e il resto della giornata.
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A cura di Fabrizio Patti