sostenibilità

Rapporto Bes-Istat: l’Italia divisa a metà

Mentre in queste settimane si aggiornano quasi quotidianamente le previsioni sulla crescita del Pil nel 2015 che si avvia alla chiusura, l’Istat ha pubblicato la terza edizione del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes 2015), fornendo una vista di più ampio respiro della situazione economica e sociale dell’Italia.

Assumendo, infatti, come punto di partenza la multidimensionalità del benessere, attraverso l’analisi di un ampio numero di indicatori (oltre 130 in dodici dimensioni diverse) l’Istituto di statistica descrive l’insieme degli aspetti che concorrono alla qualità della vita dei cittadini, con una lettura che, pur traendo le fonti da dati quantitativi, cerca di andare oltre la sintesi costituita dall’unico indicatore del Prodotto interno lordo. Le dimensioni sulle quali si concentra l’analisi sono: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi.

Proprio per l’ampiezza dell’analisi, le relazioni con il sistema del consumo sono di immediata evidenza e l’immagine del paese che viene delineata è quella - non nuova, certamente, ma molto articolata - di una divaricazione che tende a diventar insanabile tra Nord e Sud. È una costante che si ritrova in ogni capitolo del Rapporto, che conferma quanto più volte letto e sentito.

Il divario si accentua

Prendiamo la salute. La buona notizia è che gli italiani hanno la speranza di vita tra le più alte in Europa, al primo posto addirittura, con 80,3 anni per gli uomini. Le donne, che hanno una speranza di vita più elevata (85,2) sono al terzo posto in Europa. Ma il Mezzogiorno vede aumentare il proprio svantaggio nella speranza di vita (81,5 anni contro gli 82,5 del Nord, in questo caso il dato è complessivo, non per genere).

Per quanto riguarda lavoro e benessere economico, vi è la conferma di quanto già si conosce, cioè che “il Mezzogiorno è l’unica area territoriale dove l’occupazione diminuisce anche nel 2014 e dove è più bassa la qualità del lavoro”. Oltre ad avere poi un reddito medio disponibile pro-capite decisamente inferiore al Nord e al Centro, il Sud è anche l’area del Paese dove è più accentuata la disuguaglianza reddituale: “il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte quello posseduto dal 20% con i redditi più bassi, mentre nel Nord il rapporto è di 4,6”, si legge.

Ma il divario tra le due aree del Paese si accentua anche su altri versanti. Quello dell’ambiente, per esempio: sebbene siano stati fatti passi avanti nella protezione dell’ambiente, è ancora critica la gestione delle risorse naturali e la qualità complessiva dell’ambiente. In alcune regioni del Mezzogiorno e in alcune aree centrali, per esempio, la dispersione di acqua potabile dalle reti di distribuzione è pari al 37,4% in media nazionale dei volumi immessi nella rete.

Le differenze territoriali a svantaggio del Mezzogiorno si registrano anche nell’area delle relazioni sociali. In questo ambito le reti sociali sono più deboli al Sud rispetto al resto del Paese sia per quanto attiene al volontariato (lo pratica la metà delle persone che al Nord) sia nelle reti di aiuto familiari: il 78,5% delle persone ha parenti, amici o vicini su cui contare contro l’83% nel Nord.

Soprattutto nel campo dell’istruzione e della formazione, l’Istat registra il forte ritardo dell’Italia rispetto ai Paesi europei, sebbene nell’ultimo anno si sia lievemente ridotto. “Migliorare l’accesso e la partecipazione ai percorsi di istruzione e formazione e alla funzione culturale significa accrescere il capitale umano del Paese - sottolinea il Rapporto - un obiettivo che richiede siano perseguite anche equità e pari opportunità. Infatti nonostante l’innalzamento del livello medio di istruzione, i giovani appartenenti a taluni contesti territoriali e socio-economici mostrano ancora un palese svantaggio al confronto con altri”. E le differenze a sfavore del Sud sono profonde: le carenze del sistema scolastico ne sono la prima causa, tanto che l’uscita precoce dai percorsi di istruzione e formazione riguarda il 19,3% dei 18-24enni nel Meridione contro il 12% del Nord, mentre la quota dei 30-34enni laureati è del 25,3% al Nord contro il 19,7% al Sud.

Forte è anche il divario tra Mezzogiorno e altre aree del Paese per quanto riguarda tutte le tipologie di servizi (sociali e socio-sanitari, mobilità, carceri), contribuendo ad acuire quelli causati da fattori di natura economica. “Il volume di offerta di servizi alla persona e alle famiglie nelle regioni del Mezzogiorno è sistematicamente inferiore a quello medio nazionale”, è la conclusione dell’Istat.

In controtendenza è l’indicatore della percezione soggettiva della sicurezza, in risalita a livello generale ma distante da quello base del 2010, e anche in alcune regioni del Mezzogiorno. È in peggioramento invece in altre del Nord e del Centro.

Ugualmente critica è la dimensione della ricerca e innovazione, con una quota del 1,31% del Pil destinata alla ricerca, in lieve miglioramento sul 2013  (era l’1,27%), ma al di sotto della media europea. Qualche segnale positivo dal mondo delle imprese: migliora il numero di quelle che hanno investito nell’innovazione nel triennio 2010-2012, ma solo il 24,9% delle imprese ha introdotto un’innovazione di prodotto e, a fronte di un incremento nei servizi, si segnala un peggioramento nell’industria e nelle costruzioni.

Qualche segnale positivo

Tutto ciò avviene in un anno in cui la situazione economica registra una serie di segnali positivi, aumento del reddito disponibile e del potere d’acquisto e, in maniera limitata in conseguenza del lieve aumento della propensione al risparmio, della spesa per consumi finali. “Sempre meno famiglie mettono in atto strategie per il contenimento della spesa mentre è più elevata la quota di quelle che tornano a percepire come adeguate le proprie risorse economiche”, scrive l’stat.

Per rimanere sul versante economico, il rischio di povertà, soprattutto quella assoluta, hanno smesso di aumentare (dal 4,4% del 2011 al 7,3% del 2013 scende al 6,8% nel 2014). In miglioramento la percentuale di famiglie che arrivano a fine mese con grande difficoltà: si attesta al 17,9% dopo aver raggiunto il valore massimo del 18,8% nel 2013.

Si conferma il carattere di forte criticità del mercato del lavoro, nonostante alcuni segnali positivi nella crescita dell’occupazione. Il divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro resta tra i più elevati d’Europa: gli uomini occupati sono il 69,7% contro il 50,3% di donne e dovrebbero lavorare almeno 3 milioni e mezzo di donne in più delle attuali per colmarlo; la qualità del lavoro peggiorata negli ultimi anni migliora solo per alcuni aspetti, ma aumenta la quota di occupati sovraistruiti e in part time involontario, diminuisce l’indicatore della permanenza in lavori instabili (ma riguarda il 19,8% dei casi), è stabile quello sulla permanenza in occupazioni poco remunerate (il 10,5%). Continua la forte esclusione dei giovani dal mercato del lavoro.

Nel capitolo paesaggio e patrimonio culturale, l’Istat registra un cambiamento di scenario, determinato dalla crisi e da un certa rivitalizzazione del settore agricolo. “Il crollo del settore delle costruzioni ha infatti ridimensionato la pressione dell’edilizia sul territorio - nota il Rapporto - mentre l’ultimo Censimento registra per la prima volta dal 1970 una battuta d’arresto nella perdita di superficie agricola utilizzata. Allo stesso tempo sono emerse altre minacce, legate proprio all’evoluzione dell’agricoltura, come l’accelerazione dell’abbandono delle colture nelle aree interne e l’espansione delle monocolture industrializzate, che sollecitano una nuova politica forestale e misure specifiche per la tutela dei paesaggi rurali”.

Nondimeno, il deterioramento dei paesaggi urbani con l’inconsistenza delle politiche di riqualificazione dei centri storici (soprattutto nel Mezzogiorno), l’inadeguatezza degli investimenti per il patrimonio culturale (0,3% del Pil contro 0,5% della media Ue), la sopravvivenza dell’abusivismo edilizio (ancora un volta con il Mezzogiorno i testa, con oltre 40 costruzioni abusive su 100 autorizzate, contro la media italiana di 17,6) fanno sì che l’indice composito per il paesaggio e il patrimonio culturale scenda a 98,4 contro un valore di 100 nel 2001.

Nonostante il permanere di tanti aspetti critici, nel 2014 cresce però l’ottimismo verso il futuro e l’indice del benessere soggettivo dopo il forte calo del 1012 da 103,2 a 89,1 si stabilizza a un livello di 89 nel 2013 e nel 2014. I giovani in particolare presentano il maggior incremento positivo nonostante siano stati tra i soggetti sociali più colpiti dalla crisi.

Nel complesso il Rapporto Bes 2015 individua alcuni segnali di miglioramento in quasi tutte le dimensioni analizzate, cui si contrappongono però il permanere del ritardo con il resto d’Europa e l’aumento delle diseguaglianze territoriali tra Nord e Sud, con ripercussioni significative sulle disuguaglianze economiche e sociali. Particolarmente gravi sono i ritardi e le diseguaglianze per quelle dimensioni che più hanno a che vedere con le scelte del sistema Paese a sostegno della società e dell’economia e con una proiezione per il futuro, come l’istruzione, l’ambiente, la ricerca.

«Una delle linee di approfondimento su cui l’Istat intende investire è il tema dell’equità, cioè l’analisi della distribuzione delle determinanti del benessere tra i diversi soggetti sociali, con l’obiettivo di individuare aree di maggiore disagio e segmenti della popolazione più vulnerabile», ha dichiarato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva.

a cura di Fabrizio Gomarasca