Fashion online: criticità e sfide per un settore in continua evoluzione
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Districarsi tra le tendenze del settore del fashion online è sempre più complicato. Le dinamiche ad alto impatto sono sempre più generate all’esterno del settore, dove i manager dei brand si trovano come dei novelli velisti a consultare le previsioni dei venti con sempre più ansia e incertezza. Si è preso atto, all’ultima edizione del Netcomm Focus Fashion & Lifestyle, allo stesso tempo de:
- il crollo del segmento lusso, soprattutto in Oriente ma non solo (e il suo aggrapparsi a una sempre più ristretta cerchia di ultra spender, che restringe nella fascia media la cosiddetta e risaputa “piramide del lusso” fino a farla diventare una “clessidra”),
- l’ascesa inarrestabile del second hand (abiti di seconda mano, ndr), facilitato anche dalla crescita di marketplace efficienti come Vinted,
- le turbolenze del mercato fast-fashion (la “moda veloce” caratterizzata da produzione rapida e prezzo accessibile, ndr): da una parte si confronta con la progressiva contestazione sociale che questi operatori hanno in termini di impatto ambientale, dall’altro l’incontestabile fatto che Shein e la fast fashion online crescono ancora, e prepotentemente.
L’online non è più da tempo l’ancora di salvataggio dei fatturati del fashion, grazie al suo inesorabile e costante aumento su cui si poteva sempre contare, e a volte pescare un jolly, come durante e dopo il periodo pandemico. Mentre nel lungo periodo gli studi affermano ancora, almeno fino al 2029, un aumento del 10% circa anno su anno della spesa online nel comparto, nel breve periodo le strategie si perdono nell’incertezza combinata di salari, inflazione, geopolitica e tagli alla spesa che le persone attuano su tutto quello che non ritengono strettamente necessario. In Italia infatti il 21% delle persone ha ridotto le spese in abbigliamento e accessori. Anche lo spostamento delle preferenze sull’acquisto online dell’usato, praticamente raddoppiato in pochi anni in Italia (è arrivato a contare quasi il 10% di tutto il settore), può essere visto in questa ottica, che però favorisce i marketplace specializzati, e in una certa misura penalizza i brand produttori, in ritardo nell’adottare sulle proprie property digitali (siti e app) l’acquisto del prodotto usato, per timore di cannibalizzare il nuovo. In Francia, patria di Vinted, il “pre-loved”, come amano scrivere i brand del fashion, è arrivato quasi al 20%.
Insomma, se una volta il settore si interrogava più sulle tendenze interne (gonne lunghe o corte? Pantaloni a vita bassa o alta?), oggi le preoccupazioni arrivano più dai megatrend, fuori dalle leve commerciali e di marketing in possesso dei singoli brand. Interessante al proposito la percezione di impatto secondo il management. Dopo l’impatto negativo dell’incertezza geopolitica e della fiducia del consumatore (che assieme falciano quasi il 50% della possibile crescita online del settore), si intravedono nuove strategie su cui si ripongono grandi speranze.
Migliorare l’esperienza utente, i resi e l’investimento adv
Al primo posto tra queste strategie c'è il miglioramento dell’esperienza utente (si stima che potrebbe apportare un potenziale più 7,5% del fatturato), grazie a strumenti come le visualizzazioni in 3D o xR (extended reality - realtà estesa), immagini sempre più realistiche e in grado di incentivare l’acquisto, rendendo la multimedialità di foto e video sempre più “shoppable”. Un altro obiettivo sulla UX (user experience - esperienza utente), sempre oggetto di aspettative elevate, è la capacità di diminuire i resi, vera e propria spina nel fianco di ogni e-commerce manager del fashion. Grazie a simulazioni e camerini virtuali via digital twin, sia lato prodotto che lato utente, si spera di facilitare il fitting perfetto negli accelerati tempi concessi allo store dal distratto consumatore contemporaneo con lo smartphone in mano.
Un fit necessario al settore anche tra conversioni e costi: il reso gratuito, se infatti da un lato rappresenta una delle principali caratteristiche per cui gli utenti scelgono di comprare fashion online (per ben il 27% delle persone è la principale motivazione), dall’altro rappresenta una ferita costantemente aperta nei bilanci dell’e-commerce. Le pagine di prodotto, e la loro usabilità da parte di un utente che ormai visita le pagine solo come atterraggio finale di un percorso di acquisto piuttosto frastagliato tra online e offline, diventano un asset fondamentale. E questo soprattutto quando, nella maggior parte delle volte, lo stesso capo è venduto allo stesso tempo dal brand, da marketplace specializzati e da rivenditori indipendenti con boutique fisiche, ma che spesso usano l’online come outlet per sconti sugli ultimi pezzi e taglie. Questi ultimi non offrono normalmente un’esperienza esattamente esaltante sui loro siti, spesso progettati in economia, ma consentono al compratore di confrontare il prezzo, attraverso i comparatori. Il problema è che in questo modello di customer journey molta parte del budget in advertising online da parte dei brand finisce per scaricarsi come traffico sulle terze parti, in cui il prodotto viene confrontato con altri brand e in cui l’acquisto viene deciso da leve (usabilità, prezzo, informazioni) fuori dall’influenza del brand. Il ROAS (return on advertising spend - indice che misura il rendimento dagli investimenti pubblicitari), non a caso, è in costante calo, anche per la non trascurabile ascesa del prezzo del clic e del conseguente costo di acquisizione, ormai saldamente sopra i 50 euro nel settore.
Vendere senza intermediari?
Un’altra “speranza” nella lista dei manager del settore è riposta nell’eterna promessa dell’e-commerce, il social commerce, quell’enorme effluvio del fashion nelle piattaforme social, che finora però ha agito molto di più a livello di ispirazione che di conversione finale. La crescita del social commerce peraltro potrebbe porre i brand di fronte a una nuova forma di intermediazione: vendere attraverso i “carrelli social” comporterebbe certo nuove vendite ma anche nuovi costi da riconoscere alle stesse piattaforme. Nel tiro alla fune tra distribuzione diretta e indiretta, lo spostamento verso la vendita via social sarebbe un’altra buca nella strada già irta di ostacoli verso il cosiddetto Direct to Consumer (vendita diretta). Nike è stata un esempio precursore di queste difficoltà: nonostante il fatturato diretto sia cresciuto dal 30 al 43% in pochi anni, l’emarginazione autoimposta dai marketplace e del retail fisico multibrand ha comportato la perdita di visibilità del prodotto e conseguentemente delle vendite verso il pubblico magari meno “pregiato” e meno connesso emotivamente al brand (ma più alla catena distributiva) che costituiva e resta tuttora comunque una larga parte delle vendite del settore. Il fenomeno dell’acquisto in marketplace non accenna infatti a rallentare: in Italia transita sui marketplace (esclusi comparatori e boutique multicanale) più del 35% di tutto il fatturato. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno oggi lo store di Nike, sulle vendite online, è già stata superata in Italia da Vinted e sta per essere superata da Shein.
Differenziarsi, offrire servizi e digitalizzare le informazioni
Il problema, in fin dei conti, è sempre la differenziazione: oggi molti store online di brand non offrono molto di diverso o di più dei marketplace, e spesso sono penalizzati dal sistema di prezzi in cui nella Rete, per inevitabile statistica, esiste sempre almeno un rivenditore con lo stesso prodotto in sconto. Oggi i comparatori lo rendono accessibile in pochi secondi, mentre lo store di brand non può permettersi, anche per ragioni di politica di prezzo di canale e di percezione di valore del capo, di combattere ad armi pari. Probabilmente la soluzione del D2C (Direct to Consumer) nel fashion passa sia per il valore del servizio ottenibile post vendita: rivendita, riparazione, certificazione dell’originalità, dinamicità del prezzo a seconda del compratore, che nella migliore experience che il brand può dare rispetto a un marketplace. Creazione di digital twin del prodotto e del cliente, rappresentazioni 3D realistiche, che consentano una migliore corripondenza delle taglie e che accolgano le domande di facilità di acquisto, e la creazione di un “passaporto digitale” del prodotto che renda più fluida la logistica inversa, più trasparente la tracciabilità, più affidabile la validazione dell’autenticità, più semplice la raccolta di informazioni sul ciclo di vita nel mercato “secondario” del prodotto, fino alla sua dismissione ed eventuale riciclo. Non ultimo, potrebbe essere utile anche per rendere più accessibili i contenuti digitali dedicati dal brand a quello specifico prodotto.
Investire nell’esperienza, e nelle tecnologie sottostanti, sembra essere la strada obbligata del fashion online: almeno in attesa che si plachino le tempeste geopolitiche.