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Il digital marketing tra innovazione e stagnazione

l'opinione di

Gianluca Diegoli

Il Focus di Netcomm dedicato al digital marketing, collocato dopo la sbornia del picco di vendite del fine anno, è diventato un momento che serve a fare il punto delle strategie digitali nel suo complesso. Anche perché limitarsi a discutere di e-commerce in senso stretto ha sempre meno significato, come ho scritto in un altro articolo. La vendita online ha peculiarità sempre meno a sé stanti, finendo per essere risucchiata in scenari comuni a tutto il commercio omnicanale e in trend che interessano tutto il consumo di massa, senza distinzione. Al tempo stesso, però, l’appuntamento di gennaio funziona come annuale termometro degli investimenti in digitale, anche per aziende che non hanno il core business nella vendita online.

La sintesi è che non è stato proprio un anno sfolgorante, il 2023, per il digital marketing. L’advertising – in prevalenza rivolto direttamente alla vendita, per questo denominato performance marketing – soffre della congiuntura economica ancora debole (meno vendite uguale meno soldi in adv online), in cui l’uscita lenta dal fenomeno inflazione rende la lettura dei dati meno ottimistica di quanto sarebbe stata anche solo pochi anni fa. L’8% di crescita della spesa in adv nel 2023 (dati Netcomm) non vale come un 8% del 2020.

Alla fine i decisori di spesa del digital marketing, almeno osservando i dati presentati al Focus, sembrano essere molto meno avventurosi di quanto dichiarino ai convegni, in cui si parla in prevalenza di investimenti in piattaforme di unificazione del dato (o Customer Data Platform, necessarie per personalizzare i messaggi e avere una visione olistica del consumatore, ma costose per i canoni nazionali di investimento), di creator e influencer marketing e loro crisi più o meno reali, della conclamata rilevanza di TikTok, per non parlare dell’eterna promessa della realtà aumentata virtuale e dell’onnipresente (a parole) intelligenza artificiale (IA. Tutte queste pseudo-novità però richiedono investimenti con ritorni incerti, futuri o di difficile misurazione, ardui da ottenere dai budget in un periodo di instabilità come quello che stiamo attraversando.

Se rimaniamo ai numeri presentati, un 86% degli investimenti ricade in tattiche di acquisizione ben consolidate (motori di ricerca, social media, email marketing e display, comparatori di prezzi e affiliation) e anche il tanto discusso influencer marketing non va oltre un 6% del totale. Non ci troverete per nulla metaversi o cose simili. Una fotografia della realtà che mostra come il settore, in attesa di cambiamenti epocali annunciati, stia ancora una volta facendo surplace, e nel frattempo tenda a consolidare le posizioni, ridurre i costi, migliorare i margini, ottimizzare la logistica (magari facendo pagare le spese di restituzione e riducendo le spedizioni gratuite).

Lato advertising lo strumento vincente non si cambia, in estrema sintesi. La SEM (l’advertising nella ricerca online) sembra essere sempre la consueta ciambella di salvataggio dell’e-commerce manager, sia pure comprata a costi sempre più alti (+20% del costo del clic in un anno, secondo i dati dell’Osservatorio Politecnico di Milano presentati). Non c’è una nuvola all’orizzonte del monopolio di Google nel settore, se non una lontana possibile – ma non probabile, al momento – concorrenza da parte di un Bing super-potenziato da ChatGPT.

Sopra e sotto il palco dell’evento si discute invece di novità che potrebbero effettivamente cambiare i giochi. Uno per tutti, Google che comincia finalmente a dare seguito agli annunci di dismissione dei cookie di terze parti, con la possibile perdita di segnali nel targeting e quindi con ripercussioni forti nell’efficacia dell’advertising nel portare vendite. La ricaduta sarebbe quindi l’impatto negativo sul CAC, il costo di acquisizione del cliente, vero e proprio mantra del settore. Dopo la perdita di efficienza dell’ecosistema Meta negli anni scorsi, potrebbe essere in arrivo un altro brutto colpo per chi vive, come gli e-commerce, di performance più che di brand awareness, e di una continua, ansiosa e ravvicinata relazione tra spesa in promozione e ritorno dell’investimento. In particolare, cosa succederà al retargeting è il dubbio concreto che serpeggia tra gli addetti ai lavori.

Certo, da tempo si sa che la ricetta dell’antidoto è spostare gli investimenti sui dati di prima parte, e usare email, SMS e Whatsapp per fare retention e upsell. È ora possibile con la AI migliorare le segmentazioni delle DEM, creare contenuti personalizzati on-the-fly per app, siti ed email, o moltiplicare le automazioni di marketing con una frazione delle ore uomo necessarie solo pochi anni fa. E certo aumentare le interazioni di valore attraverso automazioni personalizzate con i propri clienti esistenti porta a un aumento consistente dei carrelli. Ma un e-commerce prospera solo se viene alimentato continuamente con nuove acquisizioni di clienti, dalla parte alta del funnel, e della possibilità di recupero di utenti sfuggenti che visitano lo store solo per qualche secondo, nella parte bassa del funnel. Due attività delegate finora principalmente a Meta e al remarketing, finora supportato in gran parte dal tracciamento di tag, pixel e cookie di terza parte di Meta e Google. Due capisaldi che rischiano di non essere poi più così saldi.

In conclusione sembra che l’innovazione per mantenere la competitività dell’e-commerce sia stata riposta nelle mani delle grandi piattaforme che, obtorto collo e allo scopo di mantenere la propria presa sui budget delle aziende, stanno sempre più “automatizzando” – da una parte – il processo di creazione e targeting delle campagne digitali con iniezioni rilevanti di AI, e – dall’altro – delegando la “questione raccolta dati” alle aziende clienti. Sia Meta che Google stanno caldeggiando agli e-commerce e ai retailer la raccolta dei dati rilevanti dei propri clienti, per poi poterli utilizzare in modo “GDPR-compliant” per raggiungerli di nuovo all’interno delle loro audience di massa. Sono le cosiddette “custom audience”. Ma soprattutto alla AI viene chiesto di estendere queste audience di prima parte per trovare nuovi clienti simili a quelli di partenza, da poter targettizzare in modo efficiente (sono le cosiddette lookalike audience).

TikTok sta invece ritentando la strada del social commerce - un'altra eterna promessa dell’industry digitale - sfruttando la sua popolarità su fasce giovani e promettenti di target digital-native e la presa su content creator abituati a promuovere qualsiasi cosa. Naturalmente in questo caso i servizi di acquisizione clienti si pagano con le fee di vendita, un’intermediazione simile a quella dei marketplace e di Amazon, ma in chiave di intrattenimento.

In tempi in cui si è passati da una esuberante espansione a una ricerca spasmodica dell’efficienza nella spesa e nel ritorno, la capacità di cambiare e ottimizzare i canali di vendita e advertising a seconda delle loro performance, facendo arbitraggio tra fee di vendita (dei marketplace) e i costi di advertising (delle piattaforme social e video), si dimostra, ancora una volta, come la vera skill fondativa del digital marketing contemporaneo.

Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it