Quella (vecchia) normalità dell’e-commerce
l'opinione di
È sempre più difficile analizzare l’e-commerce come fenomeno, o meglio come fenomeno a sé stante. Negli ultimi osservatori, e in particolare l’Osservatorio eCommerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano, presentato a ottobre 2023, si è notato già dai numeri presentati come la normalizzazione, l’omogeneizzazione e l’omnicanalità del comportamento del consumatore online rispetto al consumatore nel suo complesso siano davvero arrivate. Si dice da tempo che “non c’è più differenza tra online e offline”, e ora lo dicono i numeri.
Oggi ciò che influisce sui trend dell’e-commerce non parte quasi mai dal settore stesso: certo non dalla struttura di offerta consolidata in pochi player principali (il panel in questione con 350 aziende copre il 95% del fatturato del settore) e, allo stesso tempo, in molti casi eccessivamente affollata di PMI poco finanziate e dagli scarsi mezzi tecnici, con rare risorse umane con skill dedicate. Anche la domanda “di e-commerce” che arriva dalle persone non è più così rilevante per capire il futuro della vendita online: è finito il tempo delle “nicchie e-commerce”, dell’acquisto di prodotti a prezzo molto più basso dell’offline.
Mi spiego meglio: oggi le variazioni percentuali dell’e-commerce anno su anno, sia a livello aggregato che a livello di singoli comparti (abbigliamento, grocery, casa, lusso, ecc.) seguono molto più la congiuntura economica della domanda nazionale e internazionale, e i relativi trend generali del consumo (per esempio la crescita del settore del pet), che variazioni specifiche negli acquisti online. Il rimbalzo del turismo online del 2022-23 ricalca quello del turismo in generale, la stagnazione del grocery segue il momento di riflessione dei consumatori post-inflazione (e che a sua volta consegue dalla performance del settore del grocery in generale, dopo gli “anni ruggenti del Covid”, online e offline), così come si è normalizzato il settore casa e hobby, per gli stessi motivi.
Spero non me ne vorrà Alessandro Perego se riciclo le sue parole per fare un esempio. Il responsabile scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano ha dichiarato:
«Oggi la sfida per i merchant è orientata in particolar modo alla flessibilità (per contrastare l’incertezza di contesto e per rispondere rapidamente ai cambiamenti nelle politiche monetarie e nelle abitudini dei consumatori) e alla sostenibilità (per garantire il rispetto dei principi sociali e la salvaguardia dell’ambiente)».
Credo che la maggior parte dei lettori e delle lettrici di questo pezzo (che siano manager di retailer, brand, online od offline) si riconoscerà in questo quadro. Siamo tutti nella stessa barca, e l’acqua è la stessa per tutti.
Se non dai dati delle vendite, dove dunque dovremmo trovare spunti per riflettere sul presente e sul futuro del commercio online? Acquisita una sua collocazione consolidata nella filiera commerciale, a fianco di store e ipermercati di vario genere, l’e-commerce si deve probabilmente interrogare realisticamente sulla propria funzione in chiave di sostenibilità, economica e ambientale, sapendo che i livelli di crescita della penetrazione dell’online in Italia saranno inesorabili, ma più lenti e non troppo dissimili anno su anno (cioè di pochi punti superiori ai relativi mercati offline di categoria), e ancora (irraggiungibilmente) lontanissimi da quelli della Scandinavia e delle isole britanniche, in cui i già raggiunti breakeven point rischiano invece di rivoluzionare davvero il retail complessivo alla radice, cambiando il volto di città e corrieri.
È arrivato in Italia il momento delle scelte strategiche di canale, a livello di brand e di retailer, a partire dal modello ottimale di distribuzione (l’onusto trade marketing, ma in salsa online, per i brand e con uno sguardo selettivo e strategico ai diversi mercati online internazionali, questi sì diversi tra loro) per finire con le scelte di assortimento e di pricing (il category management online) che ancora troppo spesso sono limitate nella logica (non) data-driven o pedissequamente copia-incollate da un modello, quello dello store fisico, questo sì profondamente diverso nelle logiche di attrazione al punto vendita, nella modalità di fruizione e nelle “funzioni d’uso”.
Sarà probabilmente più interessante, d’ora in poi, cercare di capire cosa succede dietro i siti di e-commerce. Logistica integrata e “liquida”, a basso impatto ambientale (per quanto possibile e stante il fatto che il consumatore ancora non pare disposto a farsi carico del costo), canali distributivi e modelli di business integrati (mix di magazzino e dropshipping, magari guidato dalla AI), fusioni e collaborazioni tra player e nuovi marketplace in cobranding, centrali di acquisto online congiunte, eccetera. L’e-commerce, dopo essere cresciuto, è ormai diventato grande. Deve trovare la sua strada nella vita, capendo le sue vere specificità e complementarietà. I player che saranno in grado di sfruttarle avranno un vantaggio competitivo solidamente piantato nel futuro.
Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it