Cosa i marketer possono imparare (e attendersi) dall’evoluzione dei codici QR
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Pochi avrebbero scommesso, qualche anno fa, sulle sorti del QR code. Anzi, una fetta abbastanza maggioritaria di marketer – alla quale peraltro ero orgoglioso di appartenere – avevano sempre guardato con estremo sospetto i tentativi di infilare quel francobollo strano sul prezioso spazio del packaging o anche solo in una campagna di affissioni – o che Dio ce ne scampi – in uno spot in TV. Il rifiuto verso il QR non era ideologico: era dettato da decisioni basate su solidi pilastri data-driven. Chiunque, infatti, si sia mai trovato a misurare il numero di scansioni sa che i numeri, venissero da una scatola di biscotti o da una bottiglia di vino o da un’affissione, prima del 2019 erano davvero molto bassi, con molti zeri dopo la virgola della percentuale. Sostanzialmente il QR code, a livello B2C, era irrilevante. Al massimo serviva per sentirsi “innovativi”.
Pochi, se escludiamo le persone in estremo oriente, sapevano a cosa servisse quel mosaico di quadretti, e quelli che volevano usarlo erano ancora di meno. La friction di uso iniziale era elevatissima: si doveva al tempo scaricare una app apposita, prima che Google ed Apple decidessero finalmente di inserire la funzionalità di scansione nelle app per scattare le foto dallo smartphone. Ma nemmeno questo aveva regalato gloria al codice QR tra i consumatori. Mentre i codici a barre erano ovunque, inseriti perfino nelle app di e-commerce – per trovare facilmente un prodotto nel catalogo – o di fitness – per misurare calorie, ingredienti e altro – il QR code vivacchiava in poche applicazioni concrete, e per lo più passive – mostrare un codice era infatti già in uso agli imbarchi aeroportuali. Scansionarne uno proattivamente era ancora però molto al di là da venire.
Non che i consumatori nell’ignorare quel codice avessero tutti i torti: oltre alla spesso blanda promise iniziale (“usa il QR per seguire su Facebook”) spesso chi si avventurava nella scansione (magari quando si era in visita a musei o monumenti) si trovava di fronte a oggettive difficoltà di lettura (tipicamente contenuti illeggibili perché non ottimizzati per mobile) o link non aggiornati, che restituivano pagine non più esistenti, o semplicemente contenuti irrilevanti, di minimo valore percepito – era uso farli puntare alla home page del brand, nei casi dei prodotti CPG (beni di largo consumo) – e non contestualizzati, per non parlare della inesistente personalizzazione rispetto a chi scansionava.
La storia però a volte compie imprevedibili cambi di direzione. Emergenza sanitaria, l’accelerata e parzialmente obbligata omnicanalità, una più spiccata curiosità per la trasparenza e la tracciabilità dei prodotti, e il nuovo e critico ruolo svolto dal dato di prima parte (cioè di “proprietà” del brand stesso) nel marketing degli anni ‘20 hanno ottenuto in pochi mesi ciò che non era riuscito nei 50 anni precedenti. Il codice QR ha aperto quel varco tra online e offline che era, per un motivo o per l’altro, sempre mancato al marketing, e sempre più necessario nel path to purchase ibrido di oggi. C’era voluto il Green Pass e il menù digitale al ristorante per renderlo popolare.
L’opportunità di collegare il comportamento digitale del consumatore (ossia, oggi, il suo smartphone in cui magari è installata la nostra app) all’esperienza fisica – ovunque questa si trovi all’interno del customer journey: dall’advertising allo store, dal packaging ai pagamenti – è letteralmente, con i QR, a portata di mano. Meno costosi e complicati totem e display interattivi e molta più interazione direttamente nel dispositivo. L’informazione multimediale del brand può arrivare in ogni momento, collegata direttamente al contesto, all’oggetto, senza dover digitare o googlare nulla. Attraverso l’azione tracciabile scatenata dal QR il dato del consumatore può essere tracciato a livello aggregato e – rispettando le sue scelte di privacy – a livello individuale. L’azione può dunque essere misurata, analizzata e conservata nella Single Customer View nella Customer Data Platform aziendale, e usata per marketing automation.
I dati attivati dai touchpoint fisici, ma digitalizzati/abilitati dai codici QR di nuova generazione, possono:
- Connettere il consumatore al marchio al momento della promozione (chi non ricorda lo spot composto solo da un QR code rimbalzante durante il Superbowl 2022?).
- Personalizzare e arricchire l’esperienza in negozio (“come si usa questo prodotto? Che origine ha?”).
- Catturare dati di prima parte per mantenere l’engagement successivamente all’acquisto, magari a partire proprio dal packaging (può abilitare concorsi, iscrizione a garanzia, programmi fedeltà, sottoscrizione a newsletter, stimolo alla recensione o impostare un messaggio WhatsApp al customer care, ecc.).
Prima però di indirizzare in massa i nostri budget verso questo oggetto dal futuro luminoso per il marketing omnicanale che porta il nome di QR code (magari usato per abilitare il GS1 Digital Link, che struttura in modo standard i flussi di dati, perfino dalla cassa fisica), è necessario, per il marketer, fare due riflessioni importanti.
Primo, se l’atto della scansione è diventato più facile, diffuso e conosciuto al grande pubblico, sia pure sempre minoritario, ogni marketer non deve però sottovalutare che il reward promesso al consumatore, il trigger che deve incentivare il cliente ad aprire lo smartphone per leggere quel codice, deve essere in ogni caso più che rilevante, contestuale e di valore per il consumatore.
Secondo, trovare l’intersezione perfetta, lo sweet spot, tra attenzione suscitata e dato raccolto è cruciale. Il successo di queste iniziative passa tra l’informazione e l’esperienza che possiamo attivare per migliorare l’esperienza di acquisto e l’engagement del consumatore e il suo dato da raccogliere, utile per una successiva personalizzazione.
In un mondo iper-distratto, nuovi formati di QR code, più integrati, possono aiutare a non disperdere i dati provenienti dalle singole interazioni, e a migliorare l’efficienza e l’integrazione tra tutti i sistemi aziendali. Passare dall’era artigianale del codice a un vero e proprio sistema di analytics integrato, come è già il caso per siti ed app, al sistema informativo aziendale. Ogni interazione conta, sia nella reputazione di brand nella mente del consumatore che per i sistemi data-driven aziendali, e deve essere contata. Parafrasando Wilde, si potrebbe dire che “non c'è una seconda occasione per (far) fare una buona prima scansione”.
Gianluca Diegoli è esperto di marketing digitale, marketing transformation, retail ed e-commerce.
Il suo blog è minimarketing.it