Il largo consumo nell’era dell’incertezza
All’assemblea IBC focus sugli effetti dell’inflazione che ridisegnano le strategie di spesa dei consumatori e richiedono flessibilità e adattamento alle imprese del largo consumo
Il largo consumo, alla fine del primo trimestre di questo 2023 fa i conti con l’incertezza diffusa, la difficoltà di fare previsioni e di tirare fine mese di un gran numero di famiglie. Un quadro ben sintetizzato dalle ultime rilevazioni Nielsen, secondo le quali nel primo bimestre 2023, per effetto delle tensioni inflattive dovute alla forte crescita dei costi di produzione cumulati nel 2022, i prezzi sono saliti determinando una crescita del 9,6% delle vendite a valore, cui però si contrappone un calo del 5 % dei volumi venduti. In sostanza le famiglie riducono la quantità di prodotti per risparmiare.
De “La filiera dei beni di consumo nell’era dell’incertezza” si è ragionato nel corso dell’Assemblea annuale dell’Associazione Industrie Beni di Consumo - IBC e non sembra che si possa uscire entro breve da questa spirale, nonostante l’inflazione dia segnali di rallentamento: «Il contesto geopolitico, sociale ed economico resta instabile. Dato il quadro attuale, le nostre analisi dicono che le tensioni sui prezzi potrebbero allentarsi nel 2024, ma non si attesteranno sulle soglie del due o del tre per cento cui eravamo abituati», afferma Alessandro d’Este, presidente di IBC.
Il nodo dell’inflazione
«La curva dell’inflazione, la cui impennata era stata innescata dal prezzo dell’energia già nell’agosto 2021, si è successivamente trasferita sui beni di consumo e sui servizi – spiega l’economista dell’Università Bocconi Tito Boeri – con effetti negativi che stiamo verificando ogni giorno: l’impoverimento delle famiglie con reddito fisso, l’erosione dei risparmi pregressi, il vantaggio dei debitori sui creditori, a lungo andare effetti devastanti sul tessuto sociale. La politica monetaria, con il tardivo innalzamento dei tassi, non è stata in grado di risolvere l’inflazione, essendo questa legata all’offerta e non alla domanda. Un trend destinato a durare: finché non si ridurrà l’inflazione di fondo (core), quella depurata cioè dagli elementi volatili come il costo dell’energia e i generi alimentari, le banche centrali non potranno cambiare politiche. Il fatto è che si è rallentato il processo di integrazione commerciale mondiale e contemporaneamente si sono corrotte le catene globali del valore che permettevano di produrre a costi inferiori. A questo quadro si aggiungono le tensioni presenti nel mercato del lavoro, con un disallineamento tra domanda e offerta. In Italia il calo demografico pesa come un macigno e quand’anche si incentivasse l’aumento del tasso di fecondità, gli effetti nel mercato del lavoro si vedrebbero tra venti o trent’anni. Per questo è anacronistico qualsiasi tentativo di impedire l’immigrazione legale».
Italiani in attesa
Le previsioni negative sulla situazione economica di otto italiani su dieci, acuite dal fatto che quattro su dieci ritengono che la situazione economica della loro famiglia peggiorerà e un terzo ha difficoltà ad arrivare a fine mese, fa cambiare le loro prospettive sui consumi:
- Aumento di spesa per le bollette (45%)
- Aumento di spesa per il cibo e bevande (32%).
- Ritardo nei grandi acquisti (53%).
- Cambiamento nelle abitudini alimentari (80%).
Citando fonti diverse (Lega Coop, Deloitte), Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, afferma che anche per la spesa alimentare sono in vista dei cambiamenti:
- Ricerca del prezzo migliore in più punti vendita (36%).
- Acquisto di generi alimentari essenziali (34%).
«Accanto alla rassegnazione del 17% degli italiani e alla paura del 16,2%, vi è il 30% - commenta Ghisleri - che ha un atteggiamento di attesa per un cambiamento positivo, anche se non definito. E nell’attesa quasi un italiano su due pianifica di più lo shopping alimentare».
Strategie per il made in italy
Buone notizie per le imprese italiane arrivano dall’export dei prodotti alimentari che dal 2010 al 2022 è praticamente raddoppiato e dal 2020 è passato da 430 miliardi di euro a 620 miliardi. Ma anche in questo caso occorre ripensare al tipo di approccio. «Nel mondo c’è un pregiudizio positivo riguardo al Made in Italy – ammonisce Giuliano Noci, docente di Strategia e Marketing al Politecnico di Milano – che richiede la presa di coscienza delle opportunità che si aprono. Bisogna quindi rifuggire dal rischio di “commoditizzazione” e posizionare i prodotti rivolgendosi un target medio-alto, recuperando le dimensioni della sostenibilità ambientale. Ugualmente è un errore affrontare l’export senza una selettività nelle strategie di internazionalizzazione per paesi e territori target. Inoltre bisogna uscire anche dalla trappola del Made in Italy, pensando che l’eccellenza di prodotto sia da sola garanzia di successo. Il differenziale competitivo va messo nella capacità di gestire le relazioni con il mercato e di generare esperienza positiva. Nelle aziende deve quindi affermarsi una cultura di marketing sostenuta dalla dimensione della trasformazione digitale per garantire la tracciabilità di filiera (a sostegno della qualità del prodotto e a differenza dell’italian sounding) e abilitare il racconto delle capacità di fare i prodotti. Per questo motivo è essenziale investire sul capitale umano».
Le criticità del largo consumo
Se le imprese dell’Industria possono contare sul volano dell’export, per quelle della Distribuzione il punto critico è come far fronte a questa situazione complicata, prima che il largo consumo si restringa. «A fronte della polarizzazione dei consumi per aree geografiche, per fasce sociali, per reddito – afferma Maniele Tasca, direttore generale di Selex Gruppo Commerciale – i consumatori fanno delle scelte: visitano un numero maggiore di punti vendita, riducono lo spreco e quindi acquistano meno freschi per evitare di buttarli, acquistano meno in promozione e quindi fanno meno scorta. Ma il pericolo reale è lo scivolamento progressivo verso il basso del ceto medio, le cui scelte influiscono sulle vendite, soprattutto dei prodotti di qualità. Che oggi devono essere sostenibili e accessibili. Ecco, rischiamo di perdere quella fascia di popolazione che non può più accedere alla qualità. Per la filiera tutta è fondamentale mantenere questa fetta dei consumi. Per contro vediamo che altri prodotti, come quelli pronti, hanno un trend in crescita nonostante i prezzi più elevati, probabilmente perché il consumatore gli riconosce un valore aggiunto».
È un tema sul quale anche Dario Baroni, amministratore delegato di McDonald’s Italia, pone l’accento: «Sebbene nel lungo periodo il trend dei consumi fuori casa sia in crescita, anche se il Covid-19 ha spostato i pesi tra la sala e l’asporto, l’inflazione sta cambiando le abitudini: il trading down dei consumi penalizza chi non offre una corretta equazione tra esperienza e prezzo».
È un quadro straordinariamente complesso in cui l’elemento più critico è il disallineamento tra domanda e offerta, tra quantità e qualità, e le imprese sono chiamate a essere flessibili e dimostrare capacità di adattamento. Non senza chiamare in causa il Governo. «A nostro avviso però sono prioritarie – conclude Alessandro d’Este – politiche industriali con cui favorire l’incremento della produttività, l’accesso al credito, l’export, gli investimenti per la crescita dimensionale delle imprese e il sostegno alle transizioni sostenibile e digitale. Sono i fattori strategici per rafforzare l’industria italiana dei beni di largo consumo. Il punto d’arrivo è il miglioramento dell’efficienza della filiera, indispensabile per garantire la competitività sul mercato interno e internazionale».
A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab