La società irrazionale
Dal Rapporto Censis la fotografia dell’Italia uscita dalla pandemia con una forte carica di irrazionalità e insoddisfazioni, profonde radici nel disagio socio-economico, accanto al perdurare di debolezze strutturali. Per questo c’è bisogno di un progetto per affrontare le sfide della ripresa
Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia in Italia si leva un’onda di irrazionalità. È molto netto il giudizio del Censis nel “55esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese”.
Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid-19 non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. E poi: il 5,8% è convinto che la terra sia piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone. Perché sta succedendo? È la spia di qualcosa di più profondo. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà. Ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche.
Circolo vizioso
Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali.
Per il 51,2% degli italiani, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato. Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà.
Ci sono fattori di freno che congiurano contro la ripresa economica. Tutti i rischi di natura socio-economica che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica. A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione nell’Industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni.
Le incognite sui consumi
Il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4% tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021) è figlio dell’allentamento delle misure di contenimento del contagio. Si prevede una crescita dei consumi del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a ricollocare il paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019. In Italia il tasso medio annuo di crescita reale dei consumi si è progressivamente ridotto nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7% degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un +0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale: -1,2%.
Occupazione sottoutilizzata
Sul fronte del lavoro i tratti principali sono un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli d’istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano. Così non stupisce che l’80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconosca una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato. La precarietà lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza inoltre il clima di fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al 66%.
Oltre ai giovani a farne le spese sono le donne. A giugno 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia del primo semestre, le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000. Durante la pandemia 421 mila donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%.
L’inverno demografico
L’Italia affronta poi la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui fare leva. È quello che il Censis definisce l’inverno demografico. Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite e la popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050. E la grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al progetto genitoriale (11,1%).
Le quattro transizioni
“La società italiana è mutata e ha attraversato crisi ed emergenze con il continuo intrecciarsi di realtà emerse e sommerse, quotidiane e di lungo periodo. Oggi questo non basta più. L’adattamento continuato non regge più, il nostro complessivo sistema istituzionale deve ripensare se stesso. Siamo di fronte a una società che potrà riprendersi più per progetto che per spontanea evoluzione”, indica il Censis nelle considerazioni generali. E prosegue: “È il tempo di un cronoprogramma serio, non importa se dettato dai vincoli europei. Alla parola “crisi” preferiamo la parola “transizione”, proprio a significare che il momento più grave è ormai alle spalle, che ci siamo rimessi in cammino. Intorno a ciascun progetto di transizione (green, digitale, demografica, occupazionale) si accumulano tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive.
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La transizione green, ossia la necessità di ridurre l’impronta ecologica delle attività umane, per salvaguardare l’ambiente delle generazioni future, è un processo sociale, economico, tecnologico, politico che assume sembianze forti quanto le rivoluzioni industriali o la globalizzazione, ma proprio perché è tale richiede capacità d’indirizzo e di disegno complessivo ben oltre quella messa in campo fin qui in Italia e in Europa.
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La transizione digitale è il simbolo della sfida tecnologica e dell’innovazione delle grandi società globali. Oggi prova a integrare obiettivi di contrasto ai cambiamenti climatici e obiettivi d’inclusione dei più fragili nelle società avanzate.
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La transizione demografica, verso una società meno numerosa e più anziana, è una vera crisi, da affrontare con strumenti e approcci di una emergenza. La chiamata d’attenzione alle variabili demografiche, e al fatto che nessun paese avanzato è in ritardo quanto il nostro, ha il pregio di rimettere al centro dell’iniziativa politica il lavoro giovanile, il ruolo delle donne, il potenziamento dei servizi di assistenza e di protezione sociale.
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La transizione del lavoro, il riposizionamento delle competenze in uno scenario produttivo e dei servizi radicalmente mutato, sfugge ancora alla sensibilità dell’opinione corrente. Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, la dispersione di opportunità per mancanza o inadeguatezza delle competenze necessarie in questa nuova fase di ripartenza, non è un tema nuovo, ma oggi è al centro di un rinnovato bisogno collettivo”.
La società italiana, è la conclusione, è chiamata a un lavoro di autocoscienza individuale e collettiva di fronte alle difficoltà ancora da superare e per garantire una presenza maggiore e più efficace dell’azione pubblica. “Parlare con parole nuove e affrontare con serietà le fragilità del nostro tessuto sociale è quello che serve nell’attuale dialettica socio-politica. Nell’orizzonte della ripresa si nota un’inquietudine politica, timida e incerta. Ben vengano paura e incertezza del futuro, se aiuteranno nuovi modi di pensare e costruire società e istituzioni, di riconnettere tra loro tecnica e politica, vita sociale e attività statale. Solo che il sistema politico non si annidi in un acquietamento di pensiero, maschera di ogni poco curata transizione”.