Mettetevi comodi, il prezzo del petrolio continuerà a salire
Gli impianti petroliferi e l’industria dei combustibili fossili hanno gli anni contati, ma la rivoluzione green che auspichiamo è ancora di là da venire: è il motivo per cui viviamo in un paradosso che ci costa economicamente caro
Nelle ultime settimane il prezzo del greggio non ha fatto altro che salire, passando dai 37 dollari del novembre 2020 ai quasi 80 di oggi. Chi fa benzina lo sa già. Così come chi fa il pieno di Gpl, aumentato di conseguenza, e tra qualche settimana se ne accorgerà chiunque paghi una bolletta della corrente.
Per quanto la cosa possa non piacere al portafogli di ognuno di noi, tutti gli indici economici danno da pensare due cose: la prima è che il prezzo del petrolio continuerà a crescere o, secondo le stime più prudenti, rimarrà dove è ora (ossia attorno ai 70 dollari al barile, oscillazione più, oscillazione meno); la seconda, il fatto che il petrolio costi caro potrebbe non essere per forza una cattiva notizia, perché potrebbe essere un volano e un acceleratore verso la transizione verde da tanti auspicata.
In realtà, a ben guardare, il fatto che le quotazioni del greggio abbiano ripreso a salire proprio in concomitanza con la scelta di quasi tutto il mondo di investire sulle energie rinnovabili, potrebbe sembrare un paradosso: che senso ha far costare cara una cosa che nessuno vuole più? In realtà ne ha molto. Per varie ragioni. La prima, e più evidente di tutte, è il fatto che la transizione verde è programmata e auspicata ma, di fatto, non c’è ancora. Quindi questo ha portato a una congiuntura per cui, da un lato, stanno diminuendo gli investimenti sugli impianti petroliferi, sia nuovi che già esistenti, perché nessuno vuole investire miliardi per cercare ed estrarre una fonte di energia che ha davanti a sé una manciata di anni o, al massimo, di decenni; dall’altro però, il fatto che la transizione verde ancora non ci sia (e potrebbe non esserci ancora per lungo tempo) fa sì che la domanda di carburante o di combustibile per le case sia sostanzialmente invariata (anzi, se possibile è cresciuta in coincidenza con la ripresa post-Covid).
Un quadro, questo, nel quale si inserisce la decisione sia dei produttori americani che di quelli di Opec+ (che riunisce i paesi esportatori mediorientali e africani, più la Russia) di non aumentare la loro produzione. La ragione per cui nessuno, almeno ad oggi, vuole aumentare la produzione di greggio si spiega sia con la volontà (indigesta, ma comprensibile) di tenere artificialmente alti i prezzi, sia con la volontà di evitare di fare scorte che, con il tempo, rischierebbero di non trovare spazio sul mercato.
Un timore, quest’ultimo su cui pesa, agli occhi dei produttori, non solo il graduale e costante abbandono dei combustibili fossili, ma anche (se non soprattutto) l’incognita Covid: una ripresa del virus, la diffusione di una variante in grado di aggirare il vaccino, il rallentamento della campagna vaccinale potrebbero portare, nel medio periodo, a una repentina battuta di arresto della ripresa e dunque, di nuovo, della domanda. Un rischio che, comprensibilmente, nessun paese produttore di petrolio è disposto a correre.
Non solo. A schiacciare sul freno per nuovi impianti di trivellazione e per nuove estrazioni sono stati anche gli investitori, che hanno interrotto buona parte dei loro finanziamenti al settore del greggio. Scrive l’Economist che «quest’anno il calo degli investimenti è uno dei motivi principali per cui i prezzi di tutte e tre le materie prime energetiche (petrolio, gas e carbone) sono aumentati vertiginosamente. Gli investimenti industriali annuali sono scesi da 750 miliardi di dollari nel 2014 a 350 miliardi di dollari stimati quest’anno e le riserve in alcuni dei più grandi progetti del mondo sono scese da 50 a circa 25 anni».
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