economia

Le giravolte della storia e il cammino della ricostruzione

Una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica, suddividendo ogni rotazione in quattro unità, con un disumano sforzo per ogni quarto di giro compiuto, tra pesanti tonfi e tentennamenti. Così il Censis nel suo 54esimo Rapporto annuale dipinge il sistema Italia. Ne proponiamo le considerazioni generali

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  1. L’avanzare della storia trova, a volte, curve drammatiche e inaspettate che mutano radicalmente ambienti e paesaggi del vivere, individuale e collettivo. Cambiamenti che provocano un sentimento di estraniazione dalla realtà, spossessano dalla responsabilità di stare dentro le cose e comprenderne dinamiche, effetti, strategie di reazione. La pandemia globale di quest’anno è uno di questi improvvisi e imprevisti cambiamenti. È arrivata silenziosa e subdola. 

  2. Nella paura del tunnel abbiamo avuto occhi di talpa. L’incertezza e una sinfonia di numeri e di voci alimentavano sia la volontà collettiva di scardinamento dei programmi di stabilizzazione della spesa pubblica, perché ciascuno avrebbe dovuto trovare risarcimento del danno patito, sia il travisamento della realtà, che orientava a immaginare una sovraccapacità d’intervento dello Stato. 

  3. Il nostro paese ha saputo affidare consapevolmente alla superiore responsabilità politica il compito di affrontare l’immediato, di farlo velocemente e con coraggio, di intervenire attraverso le ordinanze di protezione civile, i decreti della presidenza del Consiglio, la compressione delle libertà civili. Sapendo, al tempo stesso, che il virus agiva anche su un paese messo male, con il respiro già guasto, e che il contagio e le sue conseguenze avrebbero svelato in tutta la sua gravità il ritardo dei processi e la debolezza dei soggetti del suo sviluppo. 

  4. La giravolta della storia è la sorpresa della ripresa pandemica. L’attesa si è trasformata in disorientamento, la semplificazione delle soluzioni in emergenza è diventata sottovalutazione dei problemi, il contagio della paura rischia di mutare in rabbia. La società italiana impone un ripensamento strutturale per la ricostruzione, per i prossimi dieci anni, per le nuove generazioni, per se stessa. 

  5. In tutte le epoche di crisi, la società italiana ha resistito e rilanciato grazie a un curioso e originale intreccio dei suoi tessuti costituenti. La realtà di oggi ci impone, pur convinti dei meriti che nello sviluppo italiano hanno avuto e avranno il vitalismo diffuso dei processi reali e lo spontaneismo dei soggetti economici e sociali, di prendere atto che il paese si muove in condizioni a troppo alto rischio per non presupporre una nuova e sistemica azione della mano pubblica: non per riparare i guasti, ma per ripensare il paese, per cogliere l’occasione di immaginarlo di nuovo, per non rinchiudere la nostra società in una cultura del sussidio e del respiro breve. 

  6. Viene naturale chiedersi se è questa la grande frattura, il sisma devastante che, finalmente secondo molti, costringa il nostro paese a dotarsi di un progetto collettivo che spazzi via la soggettività egoistica e proterva in cui per decenni abbiamo creduto, a cui ci siamo affidati con sempre minore convinzione e alla quale, senza alternative, alla fine ci siamo dovuti consegnare prigionieri. 

  7. In questa drammatica condizione, il nostro paese non può restare intrappolato in parole tanto rassicuranti quanto povere di significato, utili a enfatizzare un impegno generico di programmazione, ma difficilmente capaci di riconnettere la società in un partecipe desiderio di ricostruzione: la resilienza, la mobilità sostenibile, la digitalizzazione dell’azione amministrativa, la rete unica ultraveloce, l’economia verde, l’investimento sui giovani. Tutti avvertono, invece, che per rimettere in cammino l’economia e risaldare la società occorrono interventi concreti e in profondità, che il puro gioco di controllo e mediazione delle variabili sociali è fuori dal tempo. 

  8. Andare, in fretta. Ma verso dove? La società italiana fiuta il tempo e il cambiamento della storia, guardando oltre la pandemia, muta e prova a emanciparsi dal suo impantanamento declinante. Prende atto che il velo è squarciato, che le sicurezze si dissolvono, che alcune contraddizioni di fondo sono esposte alla vista. Conosce i rischi della paura e della fretta che questa impone nello smantellamento, dopo decenni, del primato individuale e settoriale e, in qualche modo, si sente costretta a un ritorno alla dimensione sistemica dello sviluppo

  9. In questa prospettiva, si impone una selezione degli ambiti d’intervento. In primo luogo, sul sistema delle entrate: un nuovo schema fiscale, in uno scenario positivo nel quale tutti gli elementi della tassazione sono costretti a una discontinuità fino a ieri non immaginabile. La riduzione, generalizzata e indistinta, delle tasse e dei prelievi fiscali non appare un obiettivo coerente, non almeno nel breve periodo, con la dimensione del debito pubblico e con gli impegni a sostegno del reddito e della crescita assunti dal Governo. Altrettanto evidente è che non sono più tollerabili le distorsioni che pongono a carico degli onesti l’illegalità degli evasori.
    In secondo luogo, sul sistema delle uscite. Un ridisegno del sistema industriale e un ripensamento della qualità degli investimenti a sostegno della produzione, dell’innovazione, delle esportazioni appare uno sforzo prioritario. Uscendo dall’indistinto aiuto a tutti, dall’impegno al ristoro come sussidio generalizzato, riconducendo in una percorribile politica industriale la pletora di microinterventi già decisi o in via di approvazione.
    In terzo luogo, appare urgente e necessario un ripensamento strutturale dei sistemi e sottosistemi territoriali, con un dibattito sul Mezzogiorno che precipitosamente affonda e una nuova questione settentrionale che si impone. Se da un lato, infatti, le regioni settentrionali sono più esposte al rischio di diventare una periferia a minore valore aggiunto dei sistemi produttivi nordeuropei, dall’altro lato sono poste nelle condizioni di cogliere tutte le opportunità che il nuovo quadro dell’industria europea va configurando.
    Infine, l’anno che si va chiudendo obbliga a rivedere le attribuzioni di ruolo, identità, funzioni e responsabilità di quello che, impropriamente, chiamiamo terzo settore: un po’ attori e progettisti dell’intervento sociale, un po’ ammortizzatori dell’inefficienza pubblica e privata, in parte dipendenti dalle risorse esterne e in parte imprese chiamate a vivere di mercato, destinatari d’impegni pubblici ma anche indifferenti alla selezione competitiva, custodi di una cultura di responsabilità sociale i cui confini sono più che mai incerti. 

  10. Nella curva della storia è anche l’allontanamento da un cupo e pigro pessimismo. I vincoli e i ritardi strutturali del nostro paese sono una zavorra che le emergenti difficoltà economiche e sociali rendono drammatica se solo si guarda al prossimo futuro. Il non esserci adattati in modo ottimale alle grandi trasformazioni dei processi globali rivela però una flessibilità, una gamma di potenzialità che possono rivelarsi una grande forza per seguire traiettorie di sviluppo fino a ieri inattese. 

  11. La classe politica ha scelto di non vedere il pericolo di regressione che, superata la fase più acuta dell’emergenza, la concessione a pioggia di bonus di ogni genere e natura veniva accrescendo; ha offerto, a richiesta, la promessa di aiuti indistinti, il caricamento di crediti d’imposta senza limiti, la gestione concentrata nel vertice delle decisioni, la rimozione dei raccordi tra il contenimento di congiunturali picchi di sofferenza e il perseguimento di precisi obiettivi di medio periodo. 

  12. Nel timore e con cautela, il nostro paese aspetta e sa in filigrana di avere risorse, competenze, intuizione ed esperienza per ripensare e ricostruire a freddo i sistemi portanti dello sviluppo, che dal suo geniale fervore traspira rapido il nuovo. Attende di sentire di nuovo, quando dopo le lacrime altro non si avrà da offrire che fatica e sudore, il richiamo a rimettere mano al campo, senza volgersi indietro, guardando e gestendo il solco, arando diritti. 

Tratto dal 54esimo Rapporto sulla situazione sociale del paese, Considerazioni generali, Censis