Le dimensioni della sostenibilità della filiera alimentare
Giunto alla terza edizione, l’Osservatorio Food sustainability della School of management del Politecnico di Milano ha concentrato l’attenzione sulla condivisione e sulla trasparenza dell’informazione e sulla circolarità dei processi di trasformazione, quali elementi chiave per la maggior sostenibilità del sistema agroalimentare.
«Puntare su informazione e circolarità – spiega Raffaella Cagliano, responsabile scientifico dell’Osservatorio – significa ottimizzare le risorse produttive, ridurre il più possibile gli sprechi lungo la filiera e utilizzare linguaggi e strumenti diversi, come le tecnologie e il packaging, per rendere la filiera più trasparente e i suoi operatori più partecipi e consapevoli. In un momento in cui c’è una forte necessità di ricostruire, a partire dalla fiducia degli operatori del settore e dei consumatori, l’informazione e la circolarità ricoprono un ruolo ancora più fondamentale e diventano gli elementi chiave per una maggior sostenibilità sociale, ambientale ed economica del nostro sistema agroalimentare».
«L’emergenza Covid-19 – aggiunge Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria gestionale e responsabile scientifico dell’Osservatorio – ha evidenziato quanto sia importante fornire agli attori della filiera gli strumenti e le conoscenze necessari per garantire la buona tenuta del settore, anche di fronte a forti criticità e trasformazioni sistemiche. Le imprese agroalimentari sono chiamate a dotarsi di buone pratiche e avvalersi di partnership solide, sia di filiera che cross-settoriali, e rivedere i processi interni, se non interamente il proprio modello di business, in un’ottica di maggior sostenibilità e resilienza, dando spazio a soluzioni innovative. L’innovazione, promossa dalle nuove startup sostenibili (1158 quelle censite nel mondo, 7 in Italia) può essere una leva importante per rispondere alle attuali sfide del settore, trasformando le difficoltà in opportunità di sviluppo sostenibile».
Il nodo delle eccedenze alimentari
Per indagare le pratiche maggiormente adottate per la prevenzione e la gestione delle eccedenze alimentari, i fattori abilitanti e le barriere che ne ostacolano l’adozione negli stadi della distribuzione e della ristorazione collettiva, l’Osservatorio ha analizzato un campione di 1.534 punti vendita, 28 centri di distribuzione (Ce.Di.), 3.705 punti cottura con servizio ristoro (mense) e 80 punti cottura centralizzati (depositi e centri cottura).
Nella Distribuzione il 56% del campione misura le eccedenze in modo sistematico con una frequenza predefinita e sulla base di una suddivisione merceologica dei prodotti. A livello centrale le funzioni responsabili dei processi di prevenzione e gestione delle eccedenze sono corporate social responsibility e vendite, mentre nei singoli punti vendita queste attività sono affidate perlopiù al direttore del punto vendita (70%). Le pratiche di prevenzione più frequenti sono la formazione e la sensibilizzazione del personale sul tema degli sprechi alimentari (84% del campione, il 70% vuole continuare anche in futuro) e soluzioni di packaging per una migliore conservazione dei prodotti. Analizzando la gestione delle eccedenze, tutti i rispondenti donano le eccedenze a banchi alimentari o ad associazioni non-profit e oltre metà delle aziende che possono farlo per policy interne vendono prodotti vicini alla scadenza o con difetti di packaging in aree dedicate o con prezzi scontati all’interno dei punti vendita (56%).
L’impegno del top management è il fattore che più facilita l’adozione di queste pratiche nella distribuzione, seguito, secondo il 50% del campione, dalla pressione mediatica e degli stakeholder e dall’introduzione di incentivi fiscali e normativi. Le barriere che più ostacolano le pratiche di prevenzione sono la mancanza di risorse dedicate (70% del campione) e la scarsa preparazione del personale (42%), le pratiche di gestione sono frenate principalmente dall’incertezza di un ritorno economico, quelle di riciclo e recupero energetico dalla scarsa conoscenza delle soluzioni disponibili e dalle difficoltà di applicazione.
Significata è la situazione di Esselunga, nel duplice ruolo di food company e retailer. «Lo spreco alimentare è per la nostra azienda strategico e si cala nel piano di sostenibilità. Come distributore – spiega Luca Magnani, direttore assicurazione qualità – il controllo delle eccedenze avviene mediante ordini giornalieri e attraverso un sistema informatico di riordino assistito. Per contro in produzione i piani organizzativi e i processi dipendono proprio dagli ordini quotidiani. Le eccedenze frutto di errori produttivi vengono donati e gli scarti inviati a industrie di mangimi per animali e di concimi.
Nella lunga collaborazione con il Banco Alimentare, dal 2011 abbiamo cominciato con un’attività di audit presso le strutture alle quali arrivano le donazioni, con il doppio scopo di eliminare le anomalie e di fare formazione ai volontari, creando consapevolezza della filiera».
La metà delle aziende della ristorazione collettiva non misura invece le eccedenze in maniera sistematica, ma solo sporadicamente e per specifici progetti in corso. La produzione interna è la funzione responsabile della prevenzione e gestione delle eccedenze alimentari, nella figura del direttore della mensa, del capo cuoco o manager di cucina. Alle azioni già attivate dalla Distribuzione si aggiungono la programmazione flessibile della capacità produttiva, la scelta di menu attinenti alle preferenze dei consumatori, la previsione accurata del numero di pasti e la semplificazione delle materie prime. Il primo ostacolo alla prevenzione delle eccedenze è invece la scarsa collaborazione fra i diversi operatori della filiera (50%), mentre la gestione è frenata dalle difficoltà di implementazione e dall’incertezza normativa.
«In entrambi i settori - conferma Marco Melacini, responsabile scientifico dell’Osservatorio Food sustainability - si sta andando verso una sistematizzazione della misurazione delle eccedenze generate, adottando tempistiche definite e una suddivisione merceologica. In generale, la priorità a livello di gestione viene data al recupero e alla ridistribuzione per il consumo umano, che resta una delle pratiche maggiormente adottate dalle imprese di questi stadi. Scendendo lungo la Food Waste Hierarchy, rimangono tuttavia alcuni ambiti ancora poco esplorati, soprattutto per quanto riguarda il riciclo e il recupero energetico delle eccedenze, che trovano un forte interesse da parte degli attori ma diverse difficoltà di attuazione».
Il packaging parlante
Informazione e circolarità ritornano anche come driver di innovazione nell’ambito delle soluzioni di packaging alimentare. Concentrandosi sul tema della sostenibilità sociale dell’imballaggio, per l’Osservatorio un imballaggio alimentare può assolvere a queste funzioni, così come a obiettivi di sostenibilità ambientale e di sicurezza alimentare, facendo leva su tecnologie digitali e analogiche che rafforzano la funzione comunicativa del packaging stesso, trasmettendo informazioni sempre più ricche agli attori della filiera, diventando così “parlante”. Lo scambio di informazioni tra gli attori della filiera e con i consumatori, reso possibile da molteplici soluzioni tecnologiche presenti ed emergenti sul mercato, permette una gestione più responsabile dei prodotti alimentari, dalla produzione al consumo finale, così come del fine vita degli imballaggi. L’Osservatorio ha analizzato inoltre come i principi di un’economia circolare possano declinarsi in nuovi modelli per soluzioni di food packaging, avviando un’indagine sulle filiere per il recupero e il riciclo dei materiali di imballaggio. Tema non secondario, come rileva una ricerca condotta da Conai: «Sebbene la metà dei consumatori ricerchi le informazioni ambientali riguardanti i prodotti o gli imballaggi – riferisce Simona Fontana, responsabile centro studi area prevenzione Conai – ben sette su dieci non conoscono il significato dell’etichetta ambientale che trovano sulla confezione, generando uno scetticismo diffuso, tanto che uno su due pensa che le aziende facciano solo azioni di greenwashing. Per questo una corretta comunicazione ambientale diventa ancora più fondamentale».
Figura 1 – Il packaging parla di sostenibilità con la tecnologia
Fonte: School of management Politecnico di Milano “Osservatorio Food Sustainability” giugno 2020
Sono diversi gli impatti del packaging parlante sulla supply chain. «In primo luogo – spiega Barbara Del Curto, responsabile scientifico dell’Osservatorio – sulle operation: soluzioni smart come i tag RFId e i sensori possono facilitare una gestione ottimizzata del cibo nei diversi stadi, evitando lo spreco e migliorando tracciabilità, anticontraffazione, conservazione degli alimenti e monitoraggio delle temperature. Facilita, poi, la comunicazione al consumatore delle date critiche e delle altre informazioni in etichetta, utilizzando sistemi di realtà aumentata per costruire un dialogo bidirezionale con l’utente che dura anche dopo la fase di acquisto». Si diffondono anche imballaggi che utilizzano nuove tecnologie per il recupero e il riciclo dei materiali per adattarsi ai principi dell’economia circolare, preservare il capitale naturale e ottimizzare il rendimento delle risorse.
I modelli di filiera corta
L’informazione, infine, è il fattore chiave che consente di accorciare le distanze tra gli attori della filiera, quando vi sono lunghe distanze geografiche e molteplici nodi di intermediazione che separano il produttore dal consumatore finale, ma anche a integrazione della vicinanza geografica.
Riprendendo il modello della Food short supply chain, l’Osservatorio ne ha studiato le implicazioni in termini di sostenibilità e ha messo in luce che le tre dimensioni di prossimità geografica, relazionale e informativa consentono di perseguire diversi target di sostenibilità, che sono sinergici tra loro.
Figura 2 – La prossimità relazionale e la prossimità informativa integrano quella geografica
Fonte: School of management Politecnico di Milano “Osservatorio Food Sustainability” giugno 2020
Analizzando 17 realtà dei settori lattiero-caseario, delle carni bovine/suine e salumi, l’Osservatorio ha individuato quattro modelli di filiera corta che operano entro distanze geografiche limitate ma con caratteristiche diverse. Al modello downstream oriented, appartengono imprese che a monte integrano un’elevata vicinanza geografica con relazioni molto strette con i produttori, mentre a valle le distanze geografiche e relazionali si allargano, compensate dalla mole di informazioni diffuse tramite il packaging. Il modello fully integrated presenta una filiera interamente integrata a monte e uno stretto controllo delle informazioni lungo tutta la rete grazie alle forti relazioni fra operatori. Il gruppo information-rich presenta una distanza geografica maggiore con gli stadi a monte della filiera, ma investe molto sulla trasparenza delle informazioni attraverso sistemi di gestione integrati con gli allevatori. Il gruppo end-to-end è quello con la maggiore attenzione all’integrazione fra prossimità informativa e geografica.
«L’emergenza sanitaria – afferma Federico Caniato, responsabile scientifico dell’Osservatorio Food sustainability – mette in luce ancora più chiaramente la necessità e l’opportunità di ripensare il sistema agroalimentare, valorizzando le filiere locali e rafforzando lo scambio di informazioni abilitato dalle tecnologie lungo filiere geograficamente più estese, in modo da diversificare i canali di fornitura e di vendita, rendendo l’intero sistema più resiliente. Le short food supply chain permettono di rispondere ad alcune sfide della sostenibilità, come lo sviluppo delle aree rurali, il supporto ai piccoli produttori, la necessità dei consumatori di poter verificare sicurezza, qualità e sostenibilità delle produzioni. Ma per accorciare le distanze fra produttori e consumatori la sola prossimità geografica non basta, è necessario investire nella collaborazione fra attori della filiera e nella trasparenza e condivisione delle informazioni».
A cura di Fabrizio Gomarasca @gomafab