Imprese troppo piccole per competere*
l'opinione di
I dati indicano che il nanismo dimensionale delle imprese italiane è il principale ostacolo a un aumento della produttività. Sarebbe necessario un progetto di sviluppo che spinga le imprese ad aggregarsi e a crescere contando su prospettive meno incerte.
Il confronto con i grandi paesi Ue
Il nanismo dimensionale delle imprese italiane non spiega da solo un declino della produttività che è iniziato almeno dagli anni Novanta, quando la loro efficienza era in linea con il resto d’Europa nonostante un formato simile a quello di oggi. Tuttavia, fanno riflettere gli ultimi dati Eurostat sulle imprese disaggregati su cinque classi dimensionali e tredici settori Nace. Pur tenendo conto delle differenze legislative e statistiche tra i vari paesi, tra il 2013 e il 2018 le imprese italiane occupavano mediamente 3,8 addetti ciascuna, contro i 5,8 dell’Unione a 28, i 5,1 della Francia, i 4,5 della Spagna e addirittura gli 11,7 della Germania. Nello stesso periodo il divario medio di produttività dell’Italia andava da oltre il 22% in meno nei confronti della Francia, fino a un vantaggio di quasi il 15% rispetto alla Spagna, passando per un ritardo del 16,4% sulla Germania.
Ponderando la produttività del lavoro all’interno di ciascuna tipologia di impresa con la struttura settoriale e dimensionale dei partner europei emergono spunti interessanti, sintetizzati nella tabella che segue.
Figura 1 - Dimensione aziendale e differenziali di produttività del lavoro in Italia (media 2008-2013)
Fonte: elaborazione su dati Eurostat-SBS
La colonna (a) mostra che il divario italiano sembra associato, prima di tutto, a una minore produttività del lavoro a parità di struttura settoriale e dimensionale. Per esempio, il nostro sistema produttivo risulterebbe meno efficiente di quello tedesco solo del 6,5% (invece del 16,4%) se i lavoratori italiani fossero produttivi quanto gli addetti tedeschi nelle corrispondenti tipologie di imprese. Le stesse cifre mostrano che il lavoro italiano è mediamente più efficiente della media europea e di quello spagnolo, ma tutti questi risultati dipendono più dalle tecnologie adottate che dalla sola abilità della manodopera.
I dati riportati nella colonna (b) suggeriscono che il mix produttivo italiano non appare troppo sfavorevole. Se la composizione settoriale dell’economia italiana (ma non quella dimensionale) fosse identica a quella dei diversi paesi esaminati, registreremmo solo un modesto miglioramento rispetto a Francia, Germania e UE, mentre perderemmo oltre la metà del vantaggio nei confronti della Spagna. Se invece si ipotizza che in Italia produttività e mix produttivo restino invariati, mentre la struttura dimensionale delle imprese all’interno di ciascun settore sia uguale a quella dei vari paesi di riferimento, come nella colonna (c), la produttività italiana risulterebbe addirittura superiore a quella della Germania; la struttura dimensionale spagnola lascerebbe il nostro vantaggio quasi immutato; quella francese ridurrebbe il gap a quasi a un terzo di quello effettivo. Tali miglioramenti compenserebbero anche l’inefficienza dei lavoratori prospettata nella colonna (a). La scomposizione del (logaritmo del) valore aggiunto per occupato nelle prime 8 economie europee indica che la dimensione aziendale “spiega” il 25% della sua varianza, contro il 4% del settore e il 50% di tempo, paese ed effetti incrociati.
La politica che serve
Questi risultati non tengono conto delle interazioni tra efficienza del lavoro e struttura produttiva, ma confermano alcuni fatti ben noti: a parità di dimensione e settore, le nostre imprese sono produttive quanto e più di quelle di altri paesi. Tuttavia, le piccole imprese restano inevitabilmente meno efficienti di quelle grandi, e purtroppo da noi le micro-imprese sono molto più numerose che altrove. Senza una crescita della dimensione media delle singole imprese, un miglioramento della produttività dei lavoratori o del mix produttivo sarebbe dunque insufficiente a rilanciare l’economia italiana.
Unità troppo piccole non possono sfruttare le economie di scala e soprattutto non possono adottare tecnologie avanzate, poiché queste richiedono spesso personale molto qualificato che è difficile utilizzare a tempo pieno in una impresa con pochi addetti. Così molte imprese sembrano bloccate in una “trappola dimensionale”: non possono crescere senza personale qualificato, ma non possono permettersi di acquisirlo perché sono troppo piccole per sfruttarlo a pieno e remunerarlo adeguatamente, come mostra anche la fuga dei cervelli, che trovano solo all’estero condizioni di lavoro favorevoli. Per uscire dalla trappola, le imprese avrebbero bisogno di fare un salto “quantistico” verso livelli dimensionali molto superiori, che tuttavia richiede ingenti investimenti e molta fiducia nel futuro. I tentativi per favorire almeno l’aggregazione tra imprese hanno dato risultati deludenti perché le singole unità non desiderano condividere asset cruciali, come le tecnologie e i clienti, come fanno invece per logistica o per le tecnologie dell’informazione e comunicazione. Per esempio, il bonus aggregazioni riproposto anche nel “decreto crescita” è stato sfruttato soprattutto da banche e unità che avevano già dimensioni medio-grandi. Inoltre, le operazioni di fusione e acquisizione sono appena un migliaio l’anno e hanno registrato una flessione nel 2019.
I dati europei mostrano che non bastano più gli aggiustamenti marginali incoraggiati dagli attuali incentivi pubblici. Sarebbe molto più efficace una politica di consolidamento delle prospettive per il futuro, più simile ai vecchi piani quinquennali che alle “spinte gentili” degli ultimi anni. Sembra andare nella giusta direzione un programma come Industria 4.0, mentre può essere controproducente la continua proroga ed estensione dei regimi di favore per le micro-imprese.
* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autore e non investono la responsabilità dell’istituzione di appartenenza.