Gli small data svelano i grandi trend: lo sanno Ikea e Lego
La lezione di Martin Lindstrom, autore di “Small Data”: per capire il futuro serve anche l’intuizione
Nel mondo reale, le critiche ai big data non mancano. Che sia il campo farmaceutico o quello dei beni di consumo, la domanda che ritorna è se tutta questa mole di dati abbia davvero un valore. Ossia se sia davvero utile per orientare delle scelte o suggerire nuove soluzioni.
La tesi è semplice: le aziende cominciano a capire che i big data rischiano di lasciarle all’oscuro su alcuni degli aspetti più importanti dei desideri e delle esigenze dei loro clienti. Gli small data, appunto.
C’è chi ne dubita fortemente e attorno a questa critica ha costruito una bella fetta sulla attività professionale. Stiamo parlando di Martin Lindstrom, consulente, conferenziere, autore di libri di successo planetario. Time lo ha inserito tra le cento persone più influenti del mondo. Il suo ultimo volume si chiama “Small Data - I piccoli indizi che svelano i grandi trend” (Hoepli, ottobre 2016, 19,90 euro) ed è stato l’oggetto di uno dei discorsi del World Business Forum 2016 di Milano. La tesi è semplice: le aziende cominciano a capire che i big data rischiano di lasciarle all’oscuro su alcuni degli aspetti più importanti dei desideri e delle esigenze dei loro clienti. Per intercettarli è necessaria molta osservazione diretta di piccoli dettagli, comportamenti inconsci, abitudini apparentemente insignificanti. Gli small data, appunto.
In un mondo che ha creato negli ultimi due anni il 90% di tutti i dati mai prodotti, il pericolo è di affogare in un mare di irrilevanza o di indeterminatezza. La stessa Google, dopo averne annunciato l’avvio nel 2012, ha dovuto fare un passo indietro nel suo progetto di usare i big data per identificare tempestivamente dove si sviluppassero i focolai di influenza. Il rischio, avverte Lindstrom, è di fidarci di correlazioni che in realtà non vogliono dire niente, dimenticando di cercare anche le cause. I big data, nella sua visione, non sono rinnegati, ma sono tenuti sullo sfondo. I dati, ama dire, descrivono il passato. Per capire il futuro serve anche l’intuizione, derivante dagli anni di esperienza che si accumulano.
I dati, ama dire, descrivono il passato. Per capire il futuro serve anche l’intuizione.
Solo che l’intuizione oggi è in grave crisi, perché non sappiamo più osservare e non sappiamo più annoiarci, in entrambi i casi per colpa dei nostri occhi sempre fissi sugli smartphone. Non a caso tra gli esempi più citati di persone maestre dell’intuito ci sono dei grandi vecchi del business. Ingvar Kamprad, il novantenne fondatore di Ikea, quando incontro Lindstrom gli diede appuntamento alle casse di un negozio. Era lì, gli raccontò, che passava moltissime ore. «Controllava le persone che uscivano, aveva la possibilità di guardare i loro sogni e le solo speranze». Come sappiamo l’abitudine di stare sempre in mezzo ai negozi, soffermandosi su ogni dettaglio, è stata una caratteristica di un altro gigante del commercio, Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga da poco scomparso. Lindstrom probabilmente non lo conosce, ma conosce e cita Michele Ferrero, il “papà” della Nutella morto nel 2015. «Un mio amico consulente lo incontrò quando doveva affrontare un problema di vendita di alcune merendine - racconta Lindstrom -. Ferrero gli disse: “Facciamo come se fossimo dei bambini”. Si misero in ginocchio, si avvicinarono alle casse e capirono che gli espositori erano troppo alti per dei bambini di sei anni».
Ingvar Kamprad, il novantenne fondatore di Ikea, dichiara di passare moltissime ore a guardare i clienti alle casse, per guardare i loro sogni e le loro speranze. Faceva così anche Bernardo Caprotti.
Lindstrom, di origine danese, fa spesso l’esempio dell’azienda più nota del suo Paese, la Lego. Nel 2002 era vicina al fallimento. Le vendite calavano, sembrava che i bambini fossero più attratti dai giochi digitali piuttosto che da un prodotto che sembrava un residuo del passato. La diagnosi non era sbagliata e i big data avevano aiutato a trovarla.